LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –
Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –
Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –
Dott. FRACANZANI Marcello – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17548/2018 R.G. proposto da:
P.N., in qualità di erede universale del sig.
D.P.D., con l’avv. Alessandra Luigia Maria Sagone, e con domicilio eletto presso il suo studio in Milano, via Spartaco, 26;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio ex lege in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, Milano, n. 5149/15/17 pronunciata il 13 novembre 2017 e depositata il 06 dicembre 2017, non notificata;
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 13 luglio 2021 dal Consigliere Marcello M. Fracanzani.
RILEVATO
1. Il contribuente D.P.D., socio accomandante della società Multimarketing S.a.s. di T. & C. per la quota del 5%, era attinto da una cartella di pagamento per gli anni d’imposta dal 2001 al 2006 ed emessa ai fini IVA, IVA interessi, imposte regionali e relativi interessi, e sanzioni per un importo complessivo di Euro 4.195.371,18. Benché si trattasse di debiti societari, l’Amministrazione finanziaria ne chiedeva l’iscrizione a ruolo. Il contribuente adiva pertanto la Commissione tributaria provinciale ivi svolgendo plurime censure.
2. I due gradi di merito erano favorevoli all’Ufficio.
3. Invoca la cassazione della sentenza l’erede universale del contribuente, medio tempore deceduto, che si affida a otto motivi di ricorso, cui resiste l’Avvocatura generale dello Stato con tempestivo controricorso.
4. In prossimità dell’adunanza la parte privata ha depositato memoria.
CONSIDERATO
1. Con il primo motivo la ricorrente prospetta la violazione e falsa applicazione di legge degli artt. 99 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché la nullità della sentenza per violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.
1.1 In particolare critica la sentenza impugnata nella parte in cui la Commissione tributaria regionale ha avallato il mutamento della domanda operata dall’Ufficio nelle controdeduzioni dimesse in atti. Afferma infatti che il contribuente, socio accomandante, era stato chiamato a rifondere all’Erario tutti i debiti tributari dovuti dalla società. A seguito del motivo di impugnazione sollevato dal contribuente, con cui veniva eccepito che il socio risponde delle obbligazioni sociali nei soli limiti della sua quota, l’Ufficio modificava la propria domanda e ciò faceva nelle controdeduzioni dimesse in primo grado e poi ribadite in appello. Invero, a fronte dei tributi portati a ruolo dalla cartella di pagamento, nelle sue controdeduzioni l’Ufficio chiedeva al contribuente la restituzione degli utili percepiti in mala fede ai sensi dell’art. 2321 c.c..
1.2 Lamenta pertanto la nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e della connessa preclusione all’ammissibilità a domande nuove, nonché per pronuncia viziata da extrapetizione, stante la richiesta operata dall’Ufficio estranea al titolo (cartella di pagamento) azionata e, quindi, all’oggetto del giudizio e per conseguente mutamento della natura del debito.
Il motivo è infondato.
2. Non si tratta di mutamento del titolo della domanda in grado d’appello cui è sempre stata contraria la giurisprudenza di questa Corte (Cfr. Cass. V, n. 9810/2014; da ultimo n. 12467/2019), al contrario si evidenzia la specificazione della domanda, richiamando l’art. 2321 c.c., che specifica (e fa eccezione) al limite della responsabilità intra vires del socio accomandante di cui all’art. 2213. Ed infatti, il titolo legittimante l’azione erariale con il ruolo straordinario è la restituzione di utili percepiti indebitamente dalla società, al di fuori delle regole sul loro riparto previa approvazione del bilancio, impregiudicata la questione del recupero a tassazione di quelle somme, che seguirà la sorte propria del procedimento amministrativo di accertamento.
2.1 Risulta infatti pacifico in atti che la cartella da cui tra scaturigine il presente giudizio attiene al pagamento IVA, IRAP (per l’anno 2001-2006), pretesa tributaria che non può riguardare il reddito di partecipazione del socio, ma attiene per sua stessa natura alla società; donde il carattere cautelare del ruolo straordinario per la restituzione coattiva degli utili percepiti dal socio in assenza di dichiarazioni dei redditi esposte della società e di bilanci approvati, circostanza su cui il contribuente non era in buona fede, dovendo mantenere la vigilanza sull’andamento societario per quell’afflatus societatis che incombe anche sui soci accomandanti o, comunque, senza responsabilità gestionali. Il thema decidendum resta quindi sempre individuato nella cartella notificata, che ne segna i confini.
Il motivo è pertanto infondato.
3. Con il secondo motivo la contribuente prospetta censura per difetto di giurisdizione ex art. 360 c.p.c., n. 1, in relazione al D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 1 e 2, all’art. 25 Cost., comma 1, e all’art. 102 Cost., comma 2, nonché nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dei medesimi articoli di legge.
3.1 Afferma infatti che la variazione dell’oggetto del giudizio, spostatosi dai tributi conseguenti al maggior reddito, accertato in capo alla società, agli utili da quest’ultima maturati e richiesti in restituzione per effetto delle controdeduzioni depositate dall’Agenzia nel giudizio di appello, avrebbe comportato il difetto di giurisdizione del giudice tributario in favore del giudice ordinario. Onde ripetere i debiti erariali l’Amministrazione finanziaria avrebbe pertanto dovuto azionare un giudizio avanti al giudice ordinario al pari degli altri creditori sociali.
Il motivo è infondato.
4. In disparte quanto già esposto in ordine al primo motivo di ricorso, è stato affermato che “e’ noto che la giurisdizione tributaria si colloca all’interno delle giurisdizioni speciali diverse da quella ordinaria e riguarda, in base al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, comma 1, prima parte – per quel che qui rileva: Appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il Servizio sanitario nazionale, le sovrimposte e le addizionali, le relative sanzioni nonché gli interessi e ogni altro accessorio- le liti relative ai tributi di ogni genere e specie comunque denominati – e dunque il debito di imposta, sovrimposta o addizionali, unitamente alle questioni relative ai rimborsi, alla riscossione ed alle sanzioni unitamente agli interessi ed ad ogni altro accessorio relativo all’obbligazione tributaria. Ora, queste Sezioni Unite sono ferme nel ritenere che ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, “appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il Servizio sanitario nazionale, nonché le sovrirnposte e le addizionali, le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio”-, Cass., S.U., 20 novembre 2012, n. 20323 -. Ed anche di recente queste Sezioni Unite hanno ribadito che la giurisdizione si ripartisce tra giudice ordinario e tributario a seconda della natura del credito azionato e che quella tributaria ha carattere pieno ed esclusivo e si radica indipendentemente dal contenuto della domanda – Cass. S.U., 16 dicembre 2020, n. 28709 e precedenti ivi ricordati -. Orbene, nel caso di specie oggetto dell’azione promossa, pur come formulata in sede di precisazioni delle conclusioni- per come osservato dalle ricorrenti a pag.2 della memoria -, è la postulata illegittimità o inesistenza della pretesa azionata nei confronti degli ex soci della società cancellata SER Service s.r.l., correlata vuoi alla carenza di legittimazione passiva del rapporto – in ragione dell’operatività del meccanismo introdotto dal D.Lgs. n. 174 del 2014, art. 28, comma 4 – vuoi dalla mancata distribuzione di utili ai soci in fase di liquidazione alla stregua dell’art. 2495 c.c.. Si tratta, evidentemente, di controversia che rimane attratta alla giurisdizione del giudice tributario, attenendo a pretese relative alla non debenza dei tributi oggetto dell’avviso di accertamento impugnato dai soggetti ai quali lo stesso è stato notificato. E ciò vale tanto sotto il profilo della rilevanza del D.Lgs. n. 174 del 2014, art. 28, comma 4 – sul quale, v., di recente, Corte Cost. n. 142/2020 – circa il differimento dell’effetto estintivo della società cancellata (di persone o di capitali), per cinque anni limitato al settore tributario e contributivo, evocata dagli ex soci della società destinatari dell’avviso di accertamento, involgendo il tema della responsabilità del socio per i debiti della società cancellata dal registro delle imprese, più volte esaminato dalla sezione tributaria di questa Corte in esito alle pronunzie rese da queste Sezioni unite sentenze 12 marzo 2013, n. 6070, n. 6071 e n. 6072- e degli effetti della normativa sopravvenuta. Ma vale anche con riguardo alla questione della mancata distribuzione di utili ai soci in sede di liquidazione, dalla quale le ricorrenti vorrebbero fare derivare l’illegittimità dell’accertamento emesso nei loro confronti, sostenendo di non avere alcuna diretta responsabilità rispetto alla pretesa nei medesimi azionata. Tema, quest’ultimo, che ancora una volta ruota attorno alla legittimità della pretesa azionata dall’ufficio fiscale nei confronti degli ex soci della società cancellata e che deve essere oggetto di disamina da parte del giudice naturale di quel rapporto, per l’appunto costituito dal giudice tributario. In questa direzione milita, per l’un verso, il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 36, u.c., che, in termini generali, radica innanzi alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alle pretese fiscali azionate dall’ufficio nei confronti dei soci della società estinta. Per altro verso e con specifico riferimento al tema della mancata distribuzione degli utili ai soci in sede di liquidazione giova osservare che, rimasta isolata l’affermazione espressa da Cass. n. 9672/2018, con la quale si era messa in discussione la possibilità di prospettare all’interno del giudizio tributario relativo alla legittimità dell’avviso di accertamento la questione relativa all’esistenza di utili al momento della liquidazione della società cancellata, questa Corte si è andata ormai consolidando nell’affermare che ” i soci abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non è dirimente (…) ai fini dell’esclusione dell’interesse ad agire del Fisco creditore” – Cass. n. 9094/2017 -. Sicché l’assenza nel bilancio di liquidazione della società estinta di ripartizioni agli ex soci non esclude “l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti” – conf. Cass. n. 12953/2017, Cass. n. 9672/2018, Cass. n. 17243/2018, Cass. n. 29117/2018 -. Ne consegue che il limite di responsabilità dei soci di cui all’art. 2495 c.c., non incide sulla loro legittimazione processuale rispetto all’atto di accertamento emesso nei loro confronti- come è accaduto nella vicenda qui all’esame delle Sezioni Unite- ma, al più, sull’interesse ad agire dei creditori sociali, interesse che, tuttavia, non è di per sé escluso dalla circostanza che i soci non abbiano partecipato utilmente alla ripartizione finale potendo, ad esempio, sussistere beni e diritti che, sebbene non ricompresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, si sono trasferiti ai soci”. Ciò che radica la giurisdizione in capo al giudice tributario della domanda volta ad escludere la legittimità della pretesa fiscale azionata nei confronti del socio che non ha ricevuto alcunché in sede di liquidazione della società cancellata -v., ex plurimis, Cass. n. 897/2019, Cass., 8 marzo 2017, n. 5988; Cass., 7 aprile 2017, n. 9094; Cass., 16 giugno 2017, n. 15035; Cass., 24 gennaio 2018, n. 1713; Cass., 19 aprile 2018, n. 9672; Cass., 5 giugno 2018, n. 14446; Cass., 18 dicembre 2019, n. 33582, Cass. n. 12758/2020, Cass. n. 26402/2020-.Principi, questi ultimi, dunque univocamente indirizzati ad attrarre all’interno del contenzioso tributario la questione agitata dalle ricorrenti sotto il profilo dell’art. 2945 c.c.. Sulla scorta di tali considerazioni, idonee a superare i rilievi difensivi esposti dalle ricorrenti in memoria anche con riferimento alla natura impo-esattiva dell’atto di accertamento, va dunque dichiarata la giurisdizione del giudice tributario avanti al quale rimette le parti.” (Cfr. Cass., V, n. 619/2021).
4.1 Nella fattispecie in esame è la stessa contribuente a riconoscere che l’oggetto del giudizio erano, ancorché sono diversa forma, i crediti erariali che l’Ufficio vantava nei confronti della società. Ferma rimaneva pertanto la giurisdizione del giudice tributario.
Il motivo è dunque infondato e va pertanto disatteso.
5. Con la terza doglianza la contribuente avanza censura ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e falsa applicazione dell’art. 2321 c.c., e dell’art. 27 Cost., per aver la CTR dato per assodata la circostanza di fatto della distribuzione degli utili ai soci.
5.1 Afferma che né la Guardia di Finanzia né la Procura della Repubblica hanno mai contestato alcunché né alla società né al socio accomandante D.P. e che il reato era stato commesso in via esclusiva dal socio accomandatario. Deduce che alcun utile era stato attribuito alla società sicché alcuna distribuzione era avvenuta in favore del socio accomodante all’uopo precisando che, in ogni caso, l’attribuzione degli utili ai soci non potrebbe avvenire in maniera automatica. Soggiunge che il socio accomandante, estraneo all’attività di gestione della società, deve in ogni caso essere ammesso alla prova contraria, concretando la distribuzione degli utili una presunzione semplice.
Il motivo è inammissibile.
6. Invero, sotto l’apparente contestazione di un error in iudicando, la ricorrente censura in realtà un accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità (ex multis, Cass. Sez. U. n. 7931/13, Cass. un. n. 12264/14, n. 26860/14, n. 3396/15, n. 14233/15), non essendo consentita in questa sede – nemmeno per il tramite di censure motivazionali – una revisione del giudizio di fatto, ai cui fini spetta in via esclusiva al giudice di merito la selezione degli elementi del suo convincimento (Cass. nn. 962/15, 26860/14). Segnatamente “La contestazione in ordine alla consistenza degli elementi indiziari utilizzati dalla CTR per confutare la presunzione di distribuzione che il giudice di appello ha giustificato valorizzando taluni elementi (sui quali pure si rinviene un pur risalente precedente di questa Corte ricordato dalla parte controricorrente (Cass. n. 21573/2005)) si risolve, per un verso, in un’inammissibile censura relativa all’accertamento di fatto compiuto dal giudice di appello che avrebbe potuto essere aggredito in questa sede nei soli limiti in cui la ricorrente avesse prospettato e documentato il vizio di omesso esame di fatti decisivi e controversi per il giudizio sotto il paradigma-qui non utilizzato- dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” (Cfr. Cass., V, n. 1387/2016).
6.1 Ma la doglianza è inammissibile anche sotto un ulteriore profilo. Occorre premettere che la cartella di pagamento oggetto di scrutinio era stata emessa, per gli anni d’imposta dal 2001 al 2006, ai fini IVA, IVA interessi, imposte regionali e relativi interessi, e sanzioni per un importo complessi di Euro 4.195.371,18. La suddetta cartella era stata notificata alla società nonché ai due soci, accomandatario e accomandante, a seguito dei prodromici avvisi di accertamento, parimenti notificati alla società e ai soci. Detti avvisi sono stati oggetto di separata impugnazione da parte della contribuente e i relativi giudizi sono già giunti allo scrutinio di legittimità di questa Corte.
6.2 Tanto premesso, con la presente censura la contribuente muove una doglianza nei confronti dell’attività di accertamento svolta dall’Amministrazione finanziaria, tanto che viene ivi invocata l’applicazione di una norma ad esso relativa. Si tratta dunque di un motivo di ricorso che avrebbe dovuto tutt’al più trovare ingresso nei separati giudizi promossi avversi gli avvisi di accertamento, sicché essa non può essere ora surrettiziamente introdotta nei confronti della cartella di pagamento. Infatti, ognuno degli atti impugnabili può essere oggetto di gravame solo per vizi propri.
Il motivo è pertanto inammissibile.
7.Con il quarto motivo la ricorrente denunzia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 5, in parametro all’art. 360 c.p.c., n. 4, per aver la CTR confermato la sentenza ella CTP omettendo di indicare il quantum da pagare. La sentenza sarebbe pertanto nulla per indeterminatezza.
7.1 Afferma che l’importo non sarebbe certo nemmeno tra le parti: invero, detto importo non corrisponderebbe ai 281.543,25 Euro, quale somma equivalente al 5% degli utili accertati in capo alla società giacché nell’atto costitutivo le parti avevano pattuito che, in ogni caso, il 20% degli utili dovevano essere attribuiti al socio accomandatario e solo il residuo poteva essere ripartito tra i soci.
Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
8. La doglianza è inammissibile per difetto di autosufficienza nella parte in cui la contribuente invoca la presunta violazione di una clausola dell’atto costitutivo. La contribuente ha invero omesso di riportare sia la censura promossa nei precedenti gradi di giudizio sia la clausola in commento, e di cui non v’e’ traccia alcuna nemmeno nella sentenza, sicché risulta precluso a questa Corte lo scrutinio della doglianza nei termini ambiti dalla contribuente.
8.1 Tanto premesso, il motivo è comunque infondato essendo incontroverso tra le parti sia che il socio accomodante deteneva il 5% delle quote sociali, sia che la somma di 281.543,25 Euro riportata dalla cartella corrisponde al 5% degli utili accertati in capo alla società, siccome risultante anche dall’avviso di accertamento acquisito agli atti del giudizio.
La censura va pertanto disattesa.
9. Il quinto motivo svolto dalla contribuente è proteso a denunciare l’illegittimità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 53 Cost., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. In particolare la ricorrente denunzia, nel corpo del motivo, l’elusione dell’art. 109 TUIR, nella parte in cui stabilisce che “Le spese e gli altri componenti negativi non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non risultano imputati al conto economico”. Afferma infatti che la CTR avrebbe errato nella parte in cui non ha tenuto conto dei costi deducibili in sede di accertamento. Avendo avallato la tassazione anche sui costi, anziché sui soli ricavi, afferma che la CTR avrebbe violato il principio dell’imposizione, che per sua natura deve essere collegata alla capacità contributiva.
10. La censura è inammissibile per le medesime argomentazioni svolte in relazione al terzo motivo. Ed infatti la contribuente prospetta nuovamente una doglianza che in realtà mira a colpire l’attività di accertamento svolta dall’Amministrazione finanziaria, tanto che viene invocata l’applicazione di una norma ad esso relativa. Si tratta dunque di un motivo di ricorso che avrebbe dovuto tutt’al più trovare ingresso nei separati giudizi promossi avversi gli avvisi di accertamento, sicché essa non può essere ora surrettiziamente introdotta nei confronti della cartella di pagamento.
10.1 In ogni caso il motivo è anche infondato.
In materia questa Corte ha affermato che “la regola posta dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, secondo cui i ricavi, i costi e gli altri oneri concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza, a condizione che la loro esistenza o il loro ammontare sia determinabile in modo oggettivo (dovendo altrimenti essere calcolati nel periodo d’imposta in cui si verificano tali condizioni), mira a contemperare la necessità di computare tutte le componenti nell’esercizio di competenza con l’esigenza di non addossare al contribuente un onere troppo difficile da rispettare: essa va quindi interpretata nel senso che il dovere di conteggiare tali componenti nell’anno di riferimento si arresta soltanto di fronte a quei ricavi ed a quei costi che non siano ancora noti all’atto della determinazione del reddito, e cioè al momento della redazione e presentazione della dichiarazione. Pertanto, l’onere di provare la sussistenza dei requisiti di certezza e determinabilità delle componenti del reddito in un determinato esercizio sociale incombe all’Amministrazione finanziaria per quelle positive, ed al contribuente per quelle negative; in particolare, nel caso in cui detti requisiti siano condizionati dall’espletamento di procedure amministrative, essi si intendono acquisiti, ai fini dell’imputazione del reddito corrispondente ad un determinato esercizio dell’impresa, solo attraverso il procedimento amministrativo che ne verifica i presupposti e ne liquida l’ammontare (Cass. n. 15320 del 2019); in tema di accertamento delle imposte sui redditi, spetta al contribuente l’onere della prova dell’esistenza, dell’inerenza e, ove contestata dall’Amministrazione finanziaria, della coerenza economica dei costi deducibili. A tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa (nella specie, la Cassazione ha negato la deducibilità dei premi, di importo cospicuo, corrisposti dall’amministratore della società alle proprie affiliate in assenza di un supporto documentale: Cass. n. 13300 del 2017); in tema di contenzioso tributario, l’Amministrazione finanziaria, ove contesti l’inesistenza di operazioni assunte a presupposto della deducibilità dei relativi costi e di detraibilità della relativa imposta, ha l’onere di provare, anche mediante presunzioni semplici, che dette operazioni, in realtà, non sono state effettuate, mentre, in presenza di siffatta prova, spetta al contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili (fattispecie relativa ad un avviso di accertamento in rettifica di dichiarazione IVA con determinazione di un minor credito di imposta per operazioni inesistenti, per cui l’Ufficio aveva fornito la prova del carattere soggettivamente fittizio delle operazioni poste in essere dal contribuente: Cass. n. 25775 del 2014). Da tali massime si ricava il principio secondo cui spetta al contribuente l’onere di provare la deducibilità dei costi e che solo una volta provata in maniera ragionevolmente credibile tale deducibilità spetti all’Ufficio la prova contraria” (Cfr. Cass., V, n. 8453/2020).
10.2 Nel caso in commento la contribuente nulla ha dedotto e provato, essendosi limitata a svolgere una censura meramente generica e priva di ogni riferimento rispetto alla fattispecie concreta, sì da scontare anche la connessa eccezione di inammissibilità per difetto di specificità e di autosufficienza.
11. Con la sesta doglianza la contribuente prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 53 Cost., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Segnatamente, denunzia la natura “paradossale” della situazione in cui verrebbe a trovarsi la contribuente in caso di rigetto del ricorso per cassazione. Costei sarebbe invero condannata a rimborsare gli utili e a corrispondere i tributi sugli importi rimborsati.
La censura è inammissibile.
12. E’ stato infatti affermato che “..in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa. Cass.16 luglio 2010 n. 16698; Cass. 26 marzo 2010 n. 7394” (Cfr. Cass., sez. L, n. 15634/2020).
12.1 Tanto premesso, la contribuente denuncia formalmente la violazione di norme di diritto, ma non illustra una errata interpretazione ed applicazione della norma. Di fatto la doglianza si risolve in una richiesta di rivalutazione e rivisitazione delle emergenze e delle istanze istruttorie. Un tanto lo si deduce dalla chiusura del sesto motivo ove la parte ricorrente chiede, in caso di conferma, che questa Corte specifichi in che termini debbono essere versate le imposte ossia che l’importo rimborsato dalla contribuente sia comprensivo delle imposte.
12.2 Peraltro la censura è inammissibile anche per illogicità apparendo che la “richiesta” coincida di fatto con quanto già azionato dall’Amministrazione finanziaria. Da un lato, invero, si legge nel ricorso che “si specifica che l’agenzia ha chiesto il pagamento dell’Irpef sugli utili che vuole vengano restituiti e utilizzati per pagare i debiti della società (di cui IVA, Irap e altro della cartella impugnata) nei limiti degli utili stessi”, dall’altro afferma che “si chiede che venga specificato che il contribuente è tenuto a rimborsare gli utili percepiti e che tale restituzione sia comprensiva degli importi dovuti ai fini IVA, IRAP e Irpef per le annualità in contestazione dal 2001 al 2006”.
12.3 Pare a questa Corte che quanto richiesto dalla ricorrente ricalchi quanto già richiesto dall’Agenzia, dovendosi diversamente ipotizzare che la contribuente ritenga di poter ritenere già computato, nello stesso importo astrattamente dovuto a titolo di utili, tanto questi ultimi quanto le imposte dovute, di tal via esponendo al fianco ad un nuovo profilo di inammissibilità per violazione del divieto dei nova, non risultando che tale motivo sia mai stato promosso nei precedenti gradi di merito.
Il motivo va pertanto dichiarato inammissibile.
13. Con il settimo motivo la contribuente si duole della nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e del D.Lgs. n. 546 del 2992, art. 36, in parametro all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la CTR confermato la decisione senza indicare i motivi di diritto per cui ha inteso non accogliere i motivi di appello proposti ai n. 1, 3, 4 e 5, e per aver disatteso le argomentazioni espresse nella memoria integrativa.
Il motivo è inammissibile.
14. Non è chiaro, infatti, se sia denunciato un vizio di motivazione od un errore di diritto e, in tal caso, se sia dedotto un vizio di omessa motivazione o, come pare emergere dall’articolazione della censura, di omessa pronuncia. Il motivo, inoltre, è carente in punto di autosufficienza, non avendo la ricorrente riprodotto l’atto d’appello contenente le asserite doglianze ignorate dai giudici di secondo grado (Cfr. Cass., V, n. 6394/2021).
14.1 Segnatamente esso è inammissibile per difetto di autosufficienza giacché “il ricorso tradisce un difetto di autosufficienza, che impedisce la verifica di decisività dei motivi, proprio su quell’istanza focalizzati. Si rammenta che la decisività della violazione è necessaria anche per l’omessa pronuncia, onde evitare cassazioni inutili (Cass. 2 agosto 2016, n. 16102, Rv. 641581)” (Cfr. Cass., V, n. 5185/2017).
Il motivo va pertanto dichiarato inammissibile.
15. Con l’ultimo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., per non avere fatto corretta applicazione della regola della soccombenza in materia di spese di lite. In particolare censura la decisione nella parte in cui la ricorrente è stata condannata alla rifusione delle spese di lite del grado di cassazione, benché fosse risultata ivi interamente vittoriosa: questa Corte aveva invero accolto il precedente ricorso, promosso dalla contribuente avanti a questa Corte, giusta ordinanza della sesta Sezione n. 14400/2016, la quale aveva a sua volta disposto la cassazione della sentenza e il rinvio alla CTR. Tale giudizio di rinvio si era concluso con la decisione oggetto del presente scrutinio, nella quale la CTR ha condannato la contribuente alla rifusione delle spese del giudizio appello (di rinvio), in cui era risultata soccombente, ma anche a quelle del giudizio di cassazione, in cui invece era risultata interamente vittoriosa.
Il motivo è infondato.
16. Questa Corte ha chiarito che “In tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse. Con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di cassazione è pertanto limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, tanto nell’ipotesi di soccombenza reciproca, quanto nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi, sia provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti (Cass. n. 19613/2017). Il principio enunciato rappresenta chiaramente l’ipotesi di possibile sindacato del giudice di legittimità circoscritta alla violazione del principio di soccombenza con attribuzione delle spese alla parte interamente vittoriosa. Con recente decisione la Corte Costituzionale con la sentenza n. 77/2018 ha ribadito che, fermo il principio di non attribuzione delle spese alla parte interamente vittoriosa, le ipotesi di compensazione, in aggiunta a quelle già espressamente considerate dall’art. 92 c.p.c., possono essere valutate dal giudice, ma comunque motivate e delimitate nel perimetro delle gravi e eccezionali ragioni” (Cfr. Cass., VI, n. 13706/2020).
16.1 Dei suestesi principi la CTR ha fatto buon governo, considerando che la soccombenza si deve guardare all’esito complessivo del giudizio che, nel caso di specie si era chiuso in secondo grado con il rigetto di tutte le domande della contribuente che è restata pertanto integralmente soccombente.
Il motivo è pertanto infondato.
In conclusione il ricorso è infondato e dev’essere rigettato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite a favore dell’Agenzia delle entrate che liquida in Euro cinquemilaseicento/00, oltre a spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 13 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2022
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