La distinzione tra gli atti osceni e gli atti contrari alla pubblica decenza va individuata nel fatto che i primi offendono, in modo intenso e grave, il pudore sessuale, suscitando nell'osservatore sensazioni di disgusto oppure rappresentazioni o desideri erotici, mentre i secondi ledono il normale sentimento di costumatezza, generando fastidio e riprovazione.
Ai fini della sussistenza del reato di atti osceni di cui all'art. 527 c.p., comma 2, per "luogo abitualmente frequentato da minori" si intende non un sito semplicemente aperto o esposto al pubblico dove si possa trovare un minore, bensì un luogo nel quale, sulla base di una attendibile valutazione statistica, la presenza di più soggetti minori di età ha carattere elettivo e sistematico.
Ai fini della configurabilità del reato cui all'art. 527 c.p., comma 2, i luoghi abitualmente frequentati da minori - al cui interno o nelle cui immediate vicinanze deve essere commesso il fatto - sono quelli riconoscibili come tali per vocazione strutturale (come le scuole, i luoghi di formazione fisica e culturale, i recinti creativi all'interno dei parchi, gli impianti sportivi, le ludoteche e simili), ovvero per elezione specifica, di volta in volta scelti dai minori come punto di abituale di incontro o di socializzazione, ove si trattengono per un termine non breve (come un muretto sulla pubblica via, i piazzali adibiti a luogo ludico, il cortile condominiale).
Il reato di danneggiamento commesso con violenza alla persona o con minaccia, nel testo riformulato dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, art. 2, lett. l), è configurabile anche nel caso in cui non sussiste un nesso di strumentalità tra la condotta violenta o minacciosa e l'azione di danneggiamento, posto che la ragione della incriminazione deve essere ravvisata nella maggiore pericolosità manifestata dall'agente nella esecuzione del reato.
Per la configurabilità dell'aggravante speciale del delitto di danneggiamento ex art. 635 c.p., comma 2, n. 1, costituita dal fatto commesso con violenza o minaccia, non è necessario che queste ultime rappresentino un mezzo per vincere l'altrui resistenza, ma è sufficiente che siano contestuali al fatto produttivo del danneggiamento, nel senso che il danneggiamento deve essere stato compiuto quando è ancora in atto la condotta violenta o minacciosa tenuta dall'agente, anche se la stessa non sia finalizzata a rendere possibile l'esecuzione del danneggiamento mediante l'intimidazione esercitata nei confronti del soggetto passivo.
Cassazione penale sez. II - 24/10/2019, n. 43930
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 12 giugno 2018 la Corte di Appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza in data 17 novembre 2016 del Tribunale di Bologna, ha:
- dichiarato non doversi procedere nei confronti di V.E. in relazione ai reati contravvenzionali di cui all'art. 660 c.p., e L. n. 110 del 1975, art. 4, (rispettivamente capi A e F della rubrica delle imputazioni) per essere gli stessi estinti per prescrizione;
- confermato la condanna del medesimo imputato in relazione ai residui reati di atti osceni (art. 527 c.p., capo C), danneggiamento aggravato (art. 635 c.p., capo G) e minacce aggravate (art. 612 c.p., capo H), tutti commessi tra 18 ed il 19 maggio 2012;
- rideterminato la pena inflitta all'imputato in termini ritenuti di giustizia.
2. Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza il difensore dell'imputato, deducendo:
2.1. Vizi di motivazione in punto di condanna dell'imputato per il reato di cui all'art. 527 c.p., e conseguente erronea applicazione degli artt. 527 e 529 c.p..
Secondo la difesa del ricorrente avrebbe errato la Corte di appello a non inquadrare l'azione posta in essere dal V. nella fattispecie di cui all'art. 726 c.p., in luogo di quella di cui all'art. 527 c.p., ritenendo - per effetto di un asserito travisamento dei fatti - che l'imputato abbia agito con la finalità di esibire ai presenti i propri genitali e ciò in mancanza di qualsiasi elemento probatorio al riguardo. L'imputato entrò nel bar con l'intenzione di poter utilizzare la toelette che, invece, gli fu negata con conseguente sua opzione per orinare in pubblico ma ciò - secondo parte ricorrente - non si concilia con la configurabilità di un atto "osceno" secondo quanto richiesto dalla legge e dalla giurisprudenza in materia che richiedono, invece, una precisa connotazione in termini sessuali, cioè di concupiscenza e di dimostrazione di libido.
2.2. Violazione di legge per erronea applicazione dell'art. 527 c.p., in relazione al concetto di "luogo abitualmente frequentato da minori".
Rileva, al riguardo, la difesa del ricorrente che erroneamente la Corte avrebbe ritenuto integrata la fattispecie di cui all'art. 527 c.p., comma 2, affermando che l'atto fu compiuto in presenza di minori che, in compagnia dei genitori, erano presenti nel locale pubblico in quanto così operando avrebbe indebitamente fatto coincidere il concetto di luogo pubblico, o aperto, o esposto al pubblico con quello di "luogo abitualmente frequentato da minori".
2.3. Violazione di legge per erronea applicazione dell'art. 635 c.p., comma 2, e art. 625 c.p., n. 7, in relazione al concetto di "bene esposto alla pubblica fede". Rileva la difesa del ricorrente che erroneamente i Giudici di merito avrebbero fatto rientrare in tale concetto la vetrata di un locale aperto al pubblico nel momento in cui è presente all'interno dello stesso il proprietario o chi ne fa le veci che lo soppone a custodia diretta e continua.
2.4. Vizi di motivazione in punto di condanna per il delitto di minaccia aggravata avendo i Giudici di merito travisato gli esiti dell'esame testimoniale attribuendo ai testi B. e M. dichiarazioni difformi da quelle effettivamente rese, avendo il primo dei due testi sostenuto che l'imputato inveiva ma non si riusciva a capire bene cosa dicesse ed avendo il secondo teste riferito di non avere udito alcuna minaccia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Al fine di giungere alla decisione appare doveroso procedere ad un breve riassunto dei fatti così come ricostruiti nelle sentenze di merito.
E' infatti emerso che:
a) la sera dei fatti in prossimità dell'orario di chiusura del bar denominato "(OMISSIS)" sito in (OMISSIS), l'imputato fece ingresso nel locale pubblico chiedendo di recarsi alla toilette per orinare, ma ciò non gli fu concesso perchè il bagno del locale era già stato pulito;
b) nel locale erano presenti tre ragazzi minorenni di cui uno di soli sei anni;
c) il V. a fronte del rifiuto di accedere alla toilette a quel punto iniziò ad insultare e minacciare i presenti e si sbottonò i pantaloni esibendo le parti intime anche alla presenza dei bambini;
d) indi l'imputato fu fatto uscire dal locale dopodichè il titolare ne chiuse la porta di accesso;
d) l'imputato quindi orinò innanzi a detta porta e, poi, iniziò a colpire il vetro della stessa fino ad infrangerlo, non solo con calci ma anche con quello che i testi hanno definito un "coltello" o un "coltellino" aggiungendo frasi minacciose (riferite dai testi B. e S.) del tipo "ti taglio la gola" o "vi taglio la gola".
Ciò doverosamente premesso si può passare all'esame dei sopra riassunti motivi di ricorso.
2. Il primo ed il secondo motivo di ricorso appaiono meritevoli di trattazione unitaria stante la rigorosa interdipendenza tra gli stessi e sono da ritenersi entrambi fondati.
Deve, innanzitutto, essere ricordato che a seguito delle modifiche introdotte all'art. 527 c.p., dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 8, il reato di atti osceni rimane punibile con sanzione penale solo nel caso in cui "il fatto è commesso all'interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e se da ciò vi deriva il pericolo che essi vi assistano" perchè in caso contrario la condotta è stata depenalizzata e l'autore è soggetto esclusivamente all'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria.
Lamenta, come detto, nel primo motivo di ricorso la difesa dell'imputato l'erronea qualificazione della condotta come violazione dell'art. 527 c.p., in luogo di quella di cui all'art. 726 c.p., (peraltro a sua volta depenalizzata dal citato D.Lgs. n. 8 del 2016).
Come è noto la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha chiarito che "La distinzione tra gli atti osceni e gli atti contrari alla pubblica decenza va individuata nel fatto che i primi offendono, in modo intenso e grave, il pudore sessuale, suscitando nell'osservatore sensazioni di disgusto oppure rappresentazioni o desideri erotici, mentre i secondi ledono il normale sentimento di costumatezza, generando fastidio e riprovazione" (Sez. 7, Ord n. 16477 del 27/10/2017, dep. 2018, C., Rv. 272680; Sez. 3, n. 5478 del 05/12/2013, dep. 2014, Ferraris, Rv. 258693; e numerose altre in senso conforme).
Ora, si legge testualmente nella sentenza Tribunale: " V. si è tirato fuori le parti intime... come a sancire che la pipì lui intendeva farla proprio all'interno del bar".
Nella sentenza della Corte di appello si legge sempre testualmente: "L'atto non è inquadrabile nell'ipotesi di cui all'art. 726 c.p., posto che, oltre al bisogno fisiologico che avrebbe potuto soddisfare in luogo appartato, vi fu il suo evidente intento di esibire ai presenti i propri genitali, non solo come sfida ma anche come verecondia sessuale".
Non v'è chi non veda come quella contenuta nella motivazione della Corte di appello circa il fatto che l'azione dell'imputato fosse caratterizzata anche da "verecondia sessuale" - al di là dell'improprio uso del termine "verecondia", trattandosi semmai di "inverecondia" - sia affermazione apodittica atteso che nessun elemento è stato evidenziato nella motivazione ed è desumibile dalle dichiarazioni dei testi così come riportate nella sentenza di primo grado tale da consentire di affermare che ci fosse anche una connotazione "sessuale" nell'azione del V..
Quanto detto già di per sè non consente di configurare la condotta descritta come rientrante nell'alveo dell'art. 527 c.p. ma al più di ricondurla in quella di cui all'art. 726 c.p., come detto depenalizzato.
Ma vi è di più.
Anche se si volesse rinvenire una connotazione "sessuale" all'azione dell'imputato e, quindi, comunque ricondurre detta azione nell'alveo dell'art. 527 c.p., difetterebbe l'ulteriore condizione di cui al comma 2, di detta disposizione di legge, come detto necessaria al fine di ritenere detta condotta ancora penalmente rilevante.
Questa Corte di legittimità ha, infatti, avuto modo di chiarire che "Ai fini della sussistenza del reato di atti osceni di cui all'art. 527 c.p., comma 2, per "luogo abitualmente frequentato da minori" si intende non un sito semplicemente aperto o esposto al pubblico dove si possa trovare un minore, bensì un luogo nel quale, sulla base di una attendibile valutazione statistica, la presenza di più soggetti minori di età ha carattere elettivo e sistematico" (Sez. 3, n. 56075 del 21/09/2017, R., Rv. 271811) e, ancora, che "Ai fini della configurabilità del reato cui all'art. 527 c.p., comma 2, i luoghi abitualmente frequentati da minori - al cui interno o nelle cui immediate vicinanze deve essere commesso il fatto - sono quelli riconoscibili come tali per vocazione strutturale (come le scuole, i luoghi di formazione fisica e culturale, i recinti creativi all'interno dei parchi, gli impianti sportivi, le ludoteche e simili), ovvero per elezione specifica, di volta in volta scelti dai minori come punto di abituale di incontro o di socializzazione, ove si trattengono per un termine non breve (come un muretto sulla pubblica via, i piazzali adibiti a luogo ludico, il cortile condominiale)" (Sez. 3, n. 29239 del 17/02/2017, Capuano, Rv. 270165).
Ora, applicando tali principi ai fatti così come ricostruiti dai Giudici di merito, ritiene il Collegio che non possa essere fatto rientrare tra i "luoghi abitualmente frequentati da minori" un bar in orario notturno e prossimo al momento di chiusura, trattandosi di luogo nel quale la presenza dei minori (i figli del titolare e di un avventore) era solo occasionale e la presenza dei quali non poteva essere certo considerata come avente carattere elettivo e sistematico.
Alla luce di quanto osservato si impone pertanto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata in ordine alla contestazione di cui al capo C della rubrica delle imputazioni perchè il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato, con conseguente eliminazione del relativo trattamento sanzionatorio. 3. Non fondati sono, invece, il terzo ed il quarto motivo di ricorso che anche in questo caso appaiono meritevoli di trattazione congiunta a causa dell'interconnessione esistente tra gli stessi. Bisogna prendere le mosse dal reato di minaccia aggravata di cui al capo H della rubrica delle imputazioni.
Va detto subito che il motivo di ricorso nel quale la difesa dell'imputato rileva il travisamento delle dichiarazioni dei testi che hanno riferito delle minacce formulate dall'imputato mentre maneggiava un "coltello" o un "coltellino" aggiungendo frasi minacciose (riferite dai testi B. e S.) del tipo "ti taglio la gola" o "vi taglio la gola" involge questioni di merito sulle quali i Giudici di primo e secondo grado hanno adeguatamente motivato e che non suscettibili di essere rivalutate da questa Corte di legittimità. A ciò si aggiungono le osservazioni che seguono.
Con riguardo alla decisione in ordine alla ritenuta sussistenza del reato di minaccia aggravata ci si trova dinanzi ad una c.d. "doppia conforme" e cioè doppia pronuncia di eguale segno per cui il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione della motivazione del provvedimento di secondo grado. Il vizio di motivazione, infatti, può essere fatto valere solo nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione ha riformato quella di primo grado nei punti che in questa sede ci occupano, non potendo, nel caso di c.d. "doppia conforme", superarsi il limite del "devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alle critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Sez. 4, n. 19/10/2009, Buraschi, Rv. 243636; Sez. 1, n. 24667 del 15/6/2007, Musumeci, Rv. 237207; Sez. 2, n. 5223 del 24/1/2007, Medina, Rv 236130; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013, dep. 2014, Nicoli, Rv. 258432).
Nel caso in esame, invece, il giudice di appello ha esaminato lo stesso materiale probatorio già sottoposto al tribunale e, dopo aver preso atto delle censure dell'appellante, è giunto, con riguardo alla posizione dell'imputato, alla medesima conclusione della sentenza di primo grado.
Il ricorso non è poi neppure "autosufficiente" e sul punto va ricordato che in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, quei motivi che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione, e, pur richiamando atti indicati non contengano la loro integrale trascrizione o allegazione (Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Bregamotti, Rv. 265053).
Ciò chiarito e, quindi, dato per affermato che i fatti di minaccia si sono svolti così come ricostruiti dai Giudici di merito, si deve rilevare che certamente ci si trova in presenza di una minaccia commessa con armi (l'imputato brandiva un coltello e minacciava di tagliare la gola ai presenti) e quindi in uno dei casi indicati dall'art. 339 c.p. così come richiamato anche dal testo normativo (sia quello oggi vigente che quello vigente all'epoca dei fatti) dall'art. 612 c.p., che rendono ancora perseguibile d'ufficio il predetto reato e che è stato quindi correttamente configurato.
Quanto, poi, al reato di cui all'art. 635 c.p., deve darsi atto che esiste effettivamente un contrasto giurisprudenziale in materia in quanto a sentenze di questa Corte di legittimità nelle quali si è ad esempio affermato che "Integra un'ipotesi di danneggiamento aggravato, commesso su cose esposte alla pubblica fede, la forzatura della porta di ingresso di un'abitazione affacciata sulla pubblica via, a nulla rilevando che all'interno sia presente il proprietario, giacchè questi non può esercitare alcuna vigilanza sulla porta stessa, costantemente affidata all'altrui senso di rispetto" (ex ceteris: Sez. L. n. 8215 del 14/12/2018, dep. 2019, Pataffio, Rv. 274916), si contrappongono altre nelle quali si è affermato che "Non integra l'ipotesi di danneggiamento aggravato, ai sensi dell'art. 635, comma 2, n. 1, in relazione all'art. 625 c.p., comma 1, n. 7, (fatto commesso su cose esposte alla pubblica fede), la forzatura della porta di ingresso di un locale pubblico all'interno del quale sia presente il titolare, considerato che la "ratio" della maggiore tutela accordata alle cose esposte per necessità, per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede va individuata nella minorata possibilità di difesa connessa alla particolare situazione dei beni, in quanto posti al di fuori dalla sfera di diretta vigilanza del proprietario e, quindi, affidati interamente all'altrui senso di onestà e di rispetto" (ex ceteris: Sez. 2, n. 26857 del 17/02/2017, Greco, Rv. 270660).
Ritiene tuttavia l'odierno Collegio che la relativa problematica giuridica debba essere risolta caso per caso non essendo sufficiente il richiamo alla natura od alla collocazione del bene. Un conto è, infatti, un'azione di danneggiamento che attinge una porta che si affaccia sulla pubblica via, che sia compiuta in modo del tutto inaspettato e repentino tale da pregiudicare l'effettivo esercizio della diretta vigilanza del proprietario o del custode (non potendosi certo pretendere che se anche il proprietario dell'immobile vi si trovi all'interno lo stesso possa costantemente esercitare la vigilanza sulla porta) ed altra cosa è un'azione come quella in esame che si inserisce in un unico contesto spaziotemporale di litigio tra autore e persona offesa tale da lasciare quantomeno presumere l'attuazione di un'azione violenta sotto la diretta osservazione del proprietario che, quindi, avrebbe potuto attivarsi nella difesa, situazione questa che fa venir meno la ratio di maggiore tutela dei beni che si trovano in condizioni di "minorata possibilità di difesa".
Sul punto ha quindi ragione il ricorrente a dolersi della ritenuta sussistenza della condizione di cui all'art. 625 c.p., n. 7.
Purtuttavia l'azione di danneggiamento così come posta in essere dal V. non è da ritenersi "depenalizzata" in quanto in essa ricorre un ulteriore elemento che la rende ancora penalmente sanzionabile, elemento che in fatto è emerso dagli atti e sul quale il pieno esercizio di difesa è stato ampiamente garantito ed esercitato: il danneggiamento si è inserito in un'azione caratterizzata d3 unicità spazio-temporale nella quale il V. nel danneggiare il vetro della porta dell'esercizio commerciale ha anche posto in essere delle minacce e ciò rende la predetta condotta ancora penalmente sanzionabile (oltre che procedibile d'ufficio) ex art. 635 c.p..
Sul punto deve, infatti, solo essere ulteriormente ricordato che questa Corte di legittimità ha già avuto modo di chiarire che "Il reato di danneggiamento commesso con violenza alla persona o con minaccia, nel testo riformulato dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, art. 2, lett. l), è configurabile anche nel caso in cui non sussiste un nesso di strumentalità tra la condotta violenta o minacciosa e l'azione di danneggiamento, posto che la ragione della incriminazione deve essere ravvisata nella maggiore pericolosità manifestata dall'agente nella esecuzione del reato" (Sez. 6, n. 16563 del 15/03/2016, Cava, Rv. 266996) e, ancora che "Per la configurabilità dell'aggravante speciale del delitto di danneggiamento ex art. 635 c.p., comma 2, n. 1, costituita dal fatto commesso con violenza o minaccia, non è necessario che queste ultime rappresentino un mezzo per vincere l'altrui resistenza, ma è sufficiente che siano contestuali al fatto produttivo del danneggiamento, nel senso che il danneggiamento deve essere stato compiuto quando è ancora in atto la condotta violenta o minacciosa tenuta dall'agente, anche se la stessa non sia finalizzata a rendere possibile l'esecuzione del danneggiamento mediante l'intimidazione esercitata nei confronti del soggetto passivo" (Sez. 2, n. 1377 del 12/12/2014, dep. 2015, Pompili, Rv. 261824).
Quanto detto impone il rigetto del terzo e quarto motivo di ricorso.
4. L'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo C della rubrica delle imputazioni impone una rideterminazione del trattamento sanzionatorio che può essere effettuata direttamente da questa Corte di legittimità ex art. 620 c.p.p., lett. l), mediante l'eliminazione della pena già determinata dalla Corte di appello per tale reato in giorni quindici di reclusione, con la conseguenza che la pena finale per i reati in relazione ai quali sono confermate le statuizioni di condanna deve essere rideterminata in complessivi mesi sette e giorni quindici di reclusione.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al capo C) perchè il fatto non è previsto come reato ed elimina la pena irrogata per tale reato.
Rigetta nel resto il ricorso e ridetermina la pena per i residui reati in complessivi mesi sette e giorni 15 di reclusione.
Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2019.
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