Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.41230 del 22/12/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. AMBROSI Irene – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 22460/2019 R.G. proposto da:

Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento Protezione Civile – Struttura Progetto C.A.S.E., rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici domiciliano ope legis in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

Unicredit Factoring S.p.a., rappresentata e difesa dall’Avv. Antonio Formaro, con domicilio eletto in Roma, Via Pomezia, n. 11, presso lo 7930 studio dell’Avv. Raffaele Grassia;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

e contro

Iterga Costruzioni Generali S.p.a., in proprio e nella qualità di mandataria dell’A.T.I. costituita con la Sled S.p.a. e la V. Costruzioni S.p.a., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Mario Salvatore Salvi, Nica Rae, e Domenico Di Falco, con domicilio eletto in Roma, Largo Antonio Sarti, n. 4, presso lo studio dell’Avv. Domenico Di Falco;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Corte di appello di Roma, n. 3105/2019, pubblicata il 10 maggio 2019.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 5 ottobre 2021 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

FATTI DI CAUSA

1. A seguito del terremoto che aveva colpito la Regione Abruzzo il Dipartimento della protezione civile indisse gare di appalto per i lavori di ricostruzione. Una di tali gare venne aggiudicata al raggruppamento di imprese formato da Iter Gestione Appalti S.p.a., Sled S.p.a. e V. Costruzioni S.p.a., di cui Iter risultava capogruppo mandataria. Il contratto venne stipulato il 6 agosto 2009 per un importo di oltre 50 milioni di Euro. Avvalendosi della facoltà prevista dall’art. 14 del contratto l’A.T.I. cedette ad Unicredit Factoring S.p.a. il credito che sarebbe risultato dal collaudo.

La cessione venne notificata il 6/8/2009 ed accettata dalla Protezione civile il successivo 7/8/2009. Le opere furono ultimate e collaudate il 14/11/2011.

Il certificato di collaudo prevedeva a favore dell’ATI la somma di Euro 4.971.450,82, che era dunque l’ammontare anche del credito ceduto.

La Presidenza del Consiglio corrispose di tale somma solo Euro 1.966.417,98 ad Unicredit Factoring S.p.a., trattenendo la differenza di Euro 3.073.727,66.

Unicredit Factoring S.p.a. chiese e ottenne, dal Tribunale di Milano, decreto ingiuntivo per tale restante importo.

La Presidenza del Consiglio propose opposizione eccependo l’incompetenza territoriale dell’adito tribunale e, nel merito, contestando di non dovere la somma in quanto – come appreso da notizie di stampa solo in data 3 marzo 2011 – gli amministratori della Safwood S.p.a. (società che, ai sensi del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, art. 49, comma 2, lett. f), aveva prestato l’avvalimento in favore dell’ATI, al fine di sopperire alle carenze relative ai requisiti economici e finanziari richiesti in sede di partecipazione alla gara) erano indagati, tra l’altro, per truffa ai danni dello Stato.

Il Tribunale di Milano, in accoglimento dell’eccezione preliminare, dichiarò la nullità del decreto ingiuntivo opposto dichiarando competente a decidere sulla controversia il Tribunale di Roma.

2. Unicredit Factoring s.p.a. riassunse la causa dinanzi al Tribunale di Roma, riproponendo nelle forme ordinarie la domanda già introdotta con il rito monitorio dinanzi al giudice incompetente.

Nel giudizio riassunto spiegò intervento volontario Iter Gestioni e Appalti S.p.a., in proprio e nella qualità di mandataria del R.T.I. costituito con la Sled S.p.a. e con la V. Costruzioni S.p.a., chiedendo l’accoglimento delle conclusioni rassegnate dalla Unicredit Factoring S.p.a..

Il tribunale capitolino pronunciò quindi sentenza, pubblicata in data 16 febbraio 2015, così statuendo in dispositivo: “rigetta l’opposizione e conferma il decreto ingiuntivo opposto, condannando la Presidenza del Consiglio dei Ministri alla rifusione delle spese di lite in favore di Unicredit, che si liquidano in Euro 4.500 oltre IVA e CPA, e con compensazione nei confronti dell’intervenuta Iter Gestione Appalti”.

Su istanza congiunta di Unicredit Factoring S.p.a. e Iter Gestione Appalti S.p.a. lo stesso tribunale, con ordinanza in data 18 maggio 2015, dispose la correzione da errore materiale del suddetto dispositivo, sostituito nei seguenti termini: “accoglie la domanda e condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento della somma di 3.073.727,66 di Euro, oltre IVA, interessi come richiesti, nonché spese della procedura che liquida in complessivi Euro 4.500,00 oltre IVA e CPA a favore di Unicredit, e con compensazione a favore di Iter Appalti”.

3. Con sentenza n. 3105/2019 del 10 maggio 2019 la Corte d’appello di Roma ha rigettato il gravame interposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, confermando integralmente la sentenza di primo grado e condannando l’appellante alla rifusione delle spese del doppio grado di giudizio.

4. Avverso tale sentenza la Presidenza del Consiglio dei Ministri propone ricorso per cassazione articolando otto motivi, cui resistono con controricorsi entrambe le società intimate, proponendo a loro volta ricorsi incidentali condizionati, affidati rispettivamente a due e tre motivi.

L’Amministrazione ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del proprio ricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 101,156,157,159,162,164,166,167,171,291,303,50,643 e 645 c.p.c. e dell’art. 125 disp. att. c.p.c., in relazione agli artt. 24 e 111 Cost., per avere la Corte d’appello rigettato il primo motivo di gravame con il quale detta amministrazione aveva dedotto la nullità della sentenza di primo grado e dell’intero giudizio per avere omesso il primo giudice di rilevare la nullità (non sanata) della notifica dell’atto di citazione in riassunzione, in quanto irritualmente effettuata da Unicredit presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Milano, anziché presso l’Avvocatura Generale dello Stato in Roma, e di ordinare conseguentemente la rinnovazione della notifica ex art. 291 c.p.c..

1.1. Sul punto la corte d’appello ha così motivato (pagg. 11-12 della sentenza):

“non può essere dichiarata la nullità della notifica ai sensi del R.D. n. 1611 del 1933, art. 11, commi 1 e 3, invocato da parte appellante, poiché la notifica, malgrado l’irritualità, ha raggiunto il suo scopo ai sensi dell’art. 156 c.p.c..

“Infatti, come risulta dai verbali del primo grado, l’Avvocatura dello Stato è comparsa davanti al Tribunale di Roma dopo la riassunzione, all’udienza del 22/5/2014, nella persona dell’Avvocato dello Stato Maria Chiara Ghia che ha esercitato anche la sua difesa opponendosi a un’istanza di riunione con altro procedimento e ad un’istanza ex art. 186-ter c.p.c., proposte dalla difesa di Unicredit. Inoltre, all’udienza del 3/7/2014 è comparso l’Avvocato dello Stato Michele Pizzi per la Presidenza che ha precisato le conclusioni riportandosi a quelle già in atti.

“Pertanto, si deve ritenere che, nonostante la nullità della notifica, l’Avvocatura dello Stato abbia avuto conoscenza dell’atto di riassunzione ed abbia esercitato ritualmente le proprie facoltà processuali senza necessità di depositare una nuova comparsa di costituzione.

“E’ stato in proposito statuito nell’analoga ipotesi del processo interrotto che “i soggetti già costituiti nella fase precedente all’interruzione, i quali, a seguito della riassunzione ad opera dell’altra parte, si presentino all’udienza a mezzo del loro procuratore, non possono essere considerati contumaci, ancorché non abbiano depositato una nuova comparsa di costituzione, atteso che la riassunzione del processo interrotto non dà vita ad un nuovo processo, diverso ed autonomo dal precedente, ma mira unicamente a far riemergere quest’ultimo dallo stato di quiescenza in cui versa” (cfr. Cass. civ. n. 14100 del 2003).

“Tale principio può essere senz’altro esteso alla riassunzione a seguito di declaratoria d’incompetenza territoriale per cui è stato chiarito che la riassunzione della causa davanti al giudice dichiarato competente comporta che “il processo continua davanti al nuovo giudice mantenendo una struttura unitaria e, perciò, conservando tutti gli effetti sostanziali e processuali di quello svoltosi davanti ai giudice incompetente, poiché la riassunzione non comporta l’instaurazione di un nuovo processo, bensì costituisce la prosecuzione di quello originario” (cfr. Cass. civ. n. 9915 del 2019).

“Nel caso in esame l’Avvocatura dello Stato, che era già costituita davanti al Tribunale di Milano, avendo anzi proposto opposizione al decreto ingiuntivo introduttivo del presente giudizio, non aveva necessità di depositare una nuova comparsa di costituzione dopo la riassunzione e pertanto, dopo aver acquisito la conoscenza dell’atto di riassunzione, pur irritualmente notificato, ha esercitato la difesa della Presidenza del Consiglio dei Ministri comparendo in udienza e concludendo con rinvio agli atti già depositati nella prima fase del giudizio”.

1.2. La ricorrente deduce l’erroneità in diritto di tali argomentazioni, rilevando tra l’altro che (pagg. 47-50 del ricorso):

a) secondo costante giurisprudenza di legittimità la declaratoria di incompetenza del giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo non comporta la declinatoria della competenza funzionale a decidere sulla opposizione, bensì contiene, anche implicita, la declaratoria di invalidità del decreto ingiuntivo con la conseguenza che la tempestiva riassunzione davanti al giudice dichiarato competente è da riferire non alla causa di opposizione al decreto ingiuntivo (che appartiene alla competenza funzionale del giudice che ha emesso l’ingiunzione e non tollera, quindi, la transiatio iudicii), ma a quella avente ad oggetto la domanda proposta dal creditore mediante il ricorso in sede monitoria siccome domanda soggetta alla decisione secondo le regole della cognizione ordinaria piena;

b) il fatto che l’Avvocatura Generale dello Stato (pacificamente non costituita dinanzi al Tribunale di Roma con comparsa ex artt. 166 e 167 c.p.c.) abbia presenziato ad alcune delle udienze del giudizio irritualmente riassunto non determina la sanatoria della suddetta nullità, atteso che, per costante giurisprudenza di legittimità, la mera comparizione in udienza del difensore della parte non costituita in giudizio rimane processualmente irrilevante, nel senso che è inidonea ad escludere la contumacia della parte medesima e, di conseguenza, non spiega neppure alcuna efficacia sanante ex art. 156 c.p.c., u.c., della nullità della notifica dell’atto introduttivo del giudizio.

2. Il motivo è infondato.

La decisione della corte romana, con riferimento alla esposta preliminare eccezione in rito, risulta infatti corretta nei suoi esiti, occorrendo solo provvedere ad una correzione della motivazione, nei termini appresso esposti, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4.

2.1. Le questioni che il motivo pone sono, in ordine logico, le seguenti:

a) la sentenza che dichiara l’incompetenza del giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo rende oppure no applicabile, e in che limiti, l’art. 50 c.p.c. (comporta oppure no la transiatio iudicii)?

b) strettamente correlata a tale prima questione è la seconda: la riassunzione della causa davanti al giudice indicato come competente, essendo la parte destinataria una P.A. con patrocinio necessario dell’Avvocatura, richiedeva la notifica ai sensi del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 11, comma 1, presso l’Avvocatura del distretto del giudice della riassunzione oppure la notifica doveva essere indirizzata, ai sensi del comma 2, all’Avvocatura del distretto ove è stata pronunciata la sentenza che ha revocato il decreto ingiuntivo (in tale secondo caso venendo meno in radice ogni ipotesi di nullità della notifica dell’atto di riassunzione)?

c) nel giudizio “riassunto” era necessaria una formale costituzione dell’Avvocatura oppure è predicabile anche in tal caso, analogamente all’ipotesi della prosecuzione o riassunzione del processo interrotto per le parti non colpite dall’evento interruttivo, una “ultrattività” della costituzione nella precedente fase (in tale seconda ipotesi la mera comparizione dell’Avvocatura in udienza valendo di per sé a sanare ogni vizio della notifica, ove predicabile)?

d) se si ritengono nulla la notifica e necessaria la costituzione nel giudizio riassunto, la sola comparizione in udienza della Avvocatura dello Stato e lo svolgimento da parte della stessa di attività difensiva non scritta, possono considerarsi eventi che soddisfano il presupposto di cui all’art. 291 c.p.c., in presenza del quale non era necessario ordine di rinnovazione della notifica? Detta comparizione può comportare, cioè, la sanatoria della nullità della notifica per raggiungimento dello scopo?

2.2. Reputa il Collegio che alla prima domanda debba darsi risposta affermativa e che, di conseguenza, alla seconda debba rispondersi nel primo senso (la notifica dell’atto di riassunzione, dovendo compiersi ai sensi del R.D. n. 1611 del 1933, art. 11, comma 2, deve nella specie considerarsi perfettamente valida).

Come ricorda la stessa ricorrente, costituiscono ormai principi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte quelli secondo cui “la sentenza con cui il giudice in sede di opposizione a decreto ingiuntivo dichiara l’incompetenza territoriale del giudice che ha emesso il decreto non comporta la declinatoria della competenza funzionale a decidere sulla opposizione, bensì, contiene, ancorché implicita, la declaratoria di invalidità del decreto ingiuntivo con la conseguenza che la tempestiva riassunzione davanti al giudice dichiarato competente è da riferire non alla causa di opposizione al decreto ingiuntivo (che appartiene alla competenza funzionale ed inderogabile del giudice che ha emesso l’ingiunzione e non tollera quindi la transiatio iudicii) ma a quella avente ad oggetto la domanda proposta dal creditore mediante il ricorso in sede monitoria siccome domanda soggetta alla decisione secondo le regole della cognizione ordinaria piena: ciò che trasmigra al giudice competente non è più propriamente una causa di opposizione ad un decreto che più non esiste, in ragione della declinatoria di incompetenza del primo giudice, ma una causa ordinaria – da trattarsi secondo le norme del procedimento ordinario a cognizione piena e che è la stessa che, unitamente all’azione speciale monitoria, era stata introdotta dal creditore mediante il ricorso per decreto ingiuntivo.

“Infatti, eliminato il decreto e sancita l’irritualità dell’azione speciale monitoria per difetto del presupposto della competenza, il ricorso ingiuntivo resta pur sempre nella sua efficacia propositiva dell’azione da decidersi a cognizione piena sulla domanda proposta dal creditore. Pertanto la sentenza che in sede di giudizio di opposizione rileva l’incompetenza del giudice che ha emesso il provvedimento opposto – espressamente o implicitamente revocandolo o ponendolo nel nulla – non comporta la declinatoria della competenza funzionale a decidere sull’azione speciale, ma, al contrario, pone termine (con la pronuncia di incompetenza e di connessa revoca o dichiarazione di nullità per motivi procedurali del decreto che, quindi, non può passare in giudicato) al giudizio di opposizione in quanto relativo alla postulazione di giudizio secondo le regole dell’azione speciale monitoria.

“Sicché, l’eventuale tempestiva riassunzione della causa innanzi al giudice dichiarato competente non può essere riferita al detto giudizio ma in quanto svincolata dal decreto ingiuntivo ormai invalido e dai profili relativi all’azione speciale – deve essere considerata idonea ad investire il giudice indicato come competente esclusivamente dell’azione del creditore in quanto soggetta alle regole della cognizione ordinaria (v. Cass. n. 16744 del 2009; n. 11748 del 2007; n. 15694 del 2006; n. 21297 del 2004; n. 14075 del 1999; n. 656 del 1999; n. 1485 del 1998; n. 7475 del 1997; n. 10856 del 1985; n. 139 del 1995; n. 7438 del 1994; n. 5623 del 1994)”.

Ebbene, come emerge chiaramente già dalla enunciazione di tali principi, da essi può ricavarsi la non operatività dell’art. 50 c.p.c., solo con riferimento al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, non anche con riferimento al giudizio che, introdotto con l’opposizione, dopo il definitivo annullamento del decreto ingiuntivo per ragioni di competenza è comunque destinato a “proseguire” nelle forme del procedimento ordinario.

Occorre rammentare in proposito che il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, risolvendosi in un giudizio ordinario di primo grado, come testualmente previsto dell’art. 645 c.p.c., comma 2, non si esaurisce nel controllo di legittimità in ordine alla ricorrenza o meno dei presupposti e delle speciali condizioni di ammissibilità del provvedimento monitorio, ma si estende alla cognizione piena circa la sussistenza o meno del diritto di credito fatto valere dal ricorrente; ne segue che la verificata validità del decreto ingiuntivo non esclude l’accoglimento nel merito dell’opposizione proposta dall’ingiunto e, per contro, la ritenuta invalidità del decreto stesso non osta alla condanna dell’opponente nei cui confronti sia comunque accertata, nelle forme del processo ordinario e, quindi, nella pienezza del contraddittorio, la fondatezza della pretesa creditoria dell’ingiungente.

Senza che qui occorra prendere posizione sulla natura del giudizio di opposizione, in relazione ai caratteri funzionali e strutturali che si ritengano dominanti, profili di impugnazione coesistono, in sostanza, con quelli propri del giudizio ordinario di primo grado.

In coerenza con questo pacifico schema ricostruttivo, deve conseguentemente escludersi che, in seguito alla rilevata incompetenza del giudice adito in sede monitoria (e alla conseguente declinatoria del giudice dell’opposizione), venga meno la prospettiva della prosecuzione del giudizio di merito dinanzi al giudice indicato come competente, ai sensi dell’art. 50 c.p.c..

Ciò che viene meno, indubbiamente, è il decreto ingiuntivo opposto che, in quanto invalidamente emesso, deve essere caducato con espressa pronuncia (o comunque intendersi implicitamente caducato, per effetto della sentenza declinatoria di competenza). Ma una simile definizione in rito del giudizio di opposizione, per gli aspetti più propriamente attinenti all’impugnazione, non preclude – stante la complessità strutturale poc’anzi delineata – l’ordinario corso della causa di merito, secondo le regole dettate per il processo di cognizione di primo grado, delle quali fa indubbiamente parte l’art. 50 c.p.c. (esattamente nel senso che la riassunzione ex art. 50 c.p.c. attiene alla causa di merito, v. Cass. 29/08/1994, n. 7438, cui adde conff. Cass. 21/01/2003, n. 854; 30/11/2005, n. 26076; n. 15694 del 2006, cit.; ma v. anche, alla stregua di più o meno esplicite affermazioni, la giurisprudenza prima citata). La ragione e’, in definitiva, che deve trovare applicazione il principio per cui la dichiarazione di incompetenza non rende invalida la domanda.

2.3. Acclarato dunque che la transiatio iudidi ex art. 50 c.p.c., opera anche in caso di dichiarazione di incompetenza del giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo, ancorché solo in ordine a quella parte del processo che ha ad oggetto il giudizio circa l’esistenza del credito, ne discende quale corollario la risposta al secondo dei sopra esposti quesiti.

Trattandosi, infatti, di stabilire presso quale sede dell’Avvocatura dello Stato vada fatta la notifica dell’atto di riassunzione, la risposta non può prescindere dalla natura dell’atto da notificare e, dunque, dal rilievo che non si tratta di atto introduttivo di giudizio ex novo, ma, appunto, di un “atto di riassunzione” di giudizio a seguito di dichiarazione di incompetenza del giudice inizialmente adito (non rilevando, a questi fini, che a quella declaratoria si siano anche accompagnati la revoca, implicita o esplicita, del decreto ingiuntivo opposto e la definizione del giudizio di opposizione per gli aspetti più propriamente impugnatori dello stesso (attinenti cioè ai presupposti per l’emissione del provvedimento monitorio), ma non per quelli che attengono alla sua coessenziale natura di giudizio di ordinaria cognizione sul merito della controversia).

Viene dunque in rilievo la previsione di cui del R.D. n. 1611 del 1933, art. 11, comma 2, a mente del quale “Ogni altro atto giudiziale” – ogni atto, cioè, diverso da quelli previsti dal comma 1 (“Tutte le citazioni, i ricorsi e qualsiasi altro atto di opposizione giudiziale, nonché le opposizioni ad ingiunzione e gli atti istitutivi di giudizi che si svolgono innanzi alle giurisdizioni amministrative o speciali”) i quali vanno notificati alle Amministrazioni dello Stato presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l’Autorità giudiziaria innanzi alla quale è portata la causa” – deve essere notificato “presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l’Autorità giudiziaria presso cui pende la causa o che ha pronunciato la sentenza”.

Non essendo, nella specie, la comparsa di riassunzione con cui, dopo la declinatoria dell’incompetenza, venne proseguito il giudizio dinanzi al Tribunale di Roma, un atto riconducibile a quelli di cui al R.D. n. 1644 del 1933, art. 11, comma 1 (non potendo, in particolare, considerarsi atto “istitutivo di giudizio”) e potendosi considerare riconducibile al comma 2, la notificazione bene venne dunque eseguita presso l’Avvocatura Distrettuale di Milano.

Questa esegesi è rafforzata dell’art. 125, disp. att. c.p.c., comma 3, che dispone che l’atto riassuntivo deve notificarsi ai sensi dell’art. 170 c.p.c. (v. Cass. n. 4475 del 09/05/1994; cui adde Cass. n. 4456 del 05/05/1999; n. 11028 del 15/07/2003; n. 1676 del 29/01/2015; ed altre succ. conff.) e che, dunque, imponeva, nella specie, di fare riferimento all’Avvocatura Distrettuale di Milano, costituita davanti al giudice della declinatoria di competenza.

In base a tale disposizione, anche se l’amministrazione fosse stata contumace davanti a quel giudice, la previsione della notifica personale avrebbe comportato sempre la legittimazione della detta Avvocatura Distrettuale.

2.4. Non potendosi dunque predicare, nella specie, alcuna nullità della notifica dell’atto di riassunzione, rimangono assorbite le restanti subordinate questioni (v. supra par. 2.1. sub lett. c e d) ruotanti intorno all’interrogativo se fosse necessaria, al fine di sanare l’ipotizzata nullità della notificazione dell’atto di riassunzione, una nuova formale costituzione dell’Avvocatura nel giudizio riassunto o se fossero invece sufficienti, come opinato dai giudici a quibus, la comparizione in udienza di Avvocati dello Stato e lo svolgimento in esse di attività difensiva.

2.4.1. Con riferimento al primo quesito mette conto, comunque, rilevare che ad un primo orientamento che, argomentando dagli artt. 303 c.p.c., comma 4, e dall’art. 125 disp. att. c.p.c., ma con riferimento ad ogni caso di riassunzione, ritiene necessaria una nuova costituzione della controparte destinataria dell’atto di riassunzione ed, in mancanza, legittima la dichiarazione di contumacia della detta parte (ancorché costituita nella precedente fase di giudizio) (v. in tal senso Cass. n. 2815 del 09/04/1988; cui adde conff. Cass. n. 6867 del 30/07/1996; n. 12191 del 01/12/1998; n. 12510 del 15/10/2001; n. 22750 del 04/10/2013; n. 18454 del 21/09/2015), se ne contrappone altro che, anche con riferimento all’ipotesi prevista dall’art. 303 c.p.c., afferma che “i soggetti già costituiti nella fase precedente all’interruzione, i quali, a seguito della riassunzione ad opera di altra parte, si presentino all’udienza a mezzo del loro procuratore, non possono essere considerati contumaci, ancorché non abbiano depositato nuova comparsa di costituzione, atteso che la riassunzione del processo interrotto non dà vita ad un nuovo processo, diverso ed autonomo dal precedente, ma mira unicamente a far riemergere quest’ultimo dallo stato di quiescenza in cui versa” (v. Cass. n. 21480 del 19/08/2019; n. 14351 del 19/06/2009; n. 14100 del 23/09/2003; n. 8917 del 28/10/1994; n. 329 del 04/02/1967).

Una posizione intermedia è invece assunta da Cass. n. 10445 del 15/04/2019 che, al riguardo, distingue tra riassunzione c.d. modificativa (ad es., in conseguenza della morte d’una delle parti), e riassunzione c.d. non modificativa (ad es., nel caso di morte del difensore d’una delle parti), evidenziando come, mentre nel primo caso la previsione di cui all’art. 303 c.p.c., comma 4, sia perfettamente coerente col sistema, nel secondo sia più ragionevole ritenere che la parte non colpita dall’evento interruttivo, quando avvenga la riassunzione del processo, non abbia l’onere di costituirsi ex novo, per la semplice ragione che l’interruzione del processo non fa venir meno né la capacità di stare in giudizio di quella parte; né la legittimazione del suo difensore; né gli effetti delle domande proposte o delle eccezioni sollevate.

Appare dunque evidente che, nella specie, accedendo a quest’ultimo orientamento (nella analogia dei suoi presupposti a quelli del caso in esame), la nullità in ipotesi predicata della notifica dell’atto riassuntivo avrebbe dovuto, comunque, considerarsi sanata per effetto della sola comparizione degli avvocati in udienza, ottenendo questa il medesimo risultato che sarebbe potuto conseguire ad una notifica valida.

2.4.2. Nella opposta prospettiva in cui si ritenga invece necessaria una nuova costituzione della parte destinataria dell’atto di riassunzione, ancorché costituita anteriormente, alla tesi che al fine di sanare l’ipotizzata nullità della notifica occorre una formale costituzione, con il deposito dunque anche della comparsa, non bastando la mera comparizione del difensore munito di procura in udienza, può opporsi – quanto meno in via dubitativa e senza che metta conto qui prendere posizione trattandosi, come detto, di questione assorbita – il rilievo che l’art. 291 c.p.c., ricollega certamente l’ordine di rinnovo della notificazione di cui si rilevi la nullità alla mancata costituzione, ma non ad una costituzione che sia anche valida, con la conseguenza che anche la sola comparizione del difensore in udienza dovrebbe comunque ritenersi idonea a comportare la sanatoria del vizio di notifica per raggiungimento dello scopo.

Il primo motivo è dunque rigettato.

3. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, in subordine, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112,324,329 e 343 c.p.c., nonché dell’art. 2909 c.c.; eccezione di giudicato parziale interno”.

Premette che nella sentenza di primo grado si era dato atto espressamente che: “Nel procedimento riassunto non si costituiva la Presidenza del Consiglio”, con ciò implicitamente affermando la necessità di una nuova costituzione dopo la riassunzione, mai avvenuta ed altresì implicitamente ritenendo del tutto priva di rilevanza processuale la mera comparizione, in due udienze del giudizio riassunto, dell’Avvocatura Generale dello Stato.

Sostiene che, pertanto, a fronte del primo motivo d’appello di essa amministrazione (con il quale era stata dedotta la nullità, mai sanata, della notifica della comparsa in riassunzione), le società appellate – al fine di far valere la presunta, avvenuta, sanatoria di tale nullità – avrebbero dovuto censurare con appello incidentale (condizionato) la sentenza di primo grado nella parte in cui ha, appunto, accertato la mancata costituzione dell’Amministrazione dopo la riassunzione.

3.1. Tale motivo è manifestamente infondato.

Dalla sola affermazione (nella sentenza del tribunale) della mancata costituzione non potrebbe infatti ricavarsi un giudicato implicito sulla nullità della notifica dell’atto di riassunzione, non dichiarata né rilevata dal primo giudice. Il giudicato non può formarsi su passaggio motivazionale che non trovi alcuna refluenza, esplicita o implicita, nella statuizione performativa, ma richiede una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia (cfr. Cass. n. 12202 del 16/05/2017).

La mancata censura dell’affermazione del tribunale circa l’assenza di costituzione sarebbe stata da censurare con appello incidentale condizionato solo se il tribunale ne avesse tratto conseguenze negative – sebbene ai fini di una soccombenza virtuale – per le controparti. Ma non è dato sapere quali essi sarebbero state.

4. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, artt. 38 e 49, applicabili ratione temporis, e degli artt. 1325,1343,1418 e 2041 c.c..

4.1. Il motivo investe la sentenza impugnata nella parte in cui (pagg. 14-15 della sentenza impugnata) afferma che “anche un’eventuale sentenza di condanna dei soggetti indicati nella richiesta di rinvio a giudizio, nella quale peraltro non si ipotizza un concorso nella truffa ai danni dello Stato dei rappresentanti delle società che hanno costituito l’A.T.I. appaltatrice, non potrebbe comportare l’invalidità del contratto, trattandosi di condotta fraudolenta tenuta da un soggetto terzo, che non è stato parte del contratto di appalto da cui scaturisce il credito ed alla quale non vi è alcuna prova che in effetti abbia partecipato anche l’A.T.I….”.

Affermazione, questa, poi supportata, in sentenza, dai seguenti rilievi:

– “l’art. 38, lett. f), sanziona, in generale, con l’esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento di concessione degli appalti di lavori, forniture e servizi e per l’affidamento di subappalti, i soggetti che nell’anno precedente alla data di pubblicazione del bando di gara abbiano reso false dichiarazioni in merito alle condizioni rilevanti per la partecipazione alle procedure di gara per l’affidamento di subappalti, risultanti dai dati in possesso dell’Osservatorio”;

– “l’art. 49, comma 3, in tema di avvalimento, stabilisce che il concorrente viene escluso dalla gara in caso di dichiarazioni mendaci”,

– “il comma 10, poi stabilisce che il contratto in ogni caso è eseguito dall’Impresa che partecipa alla gara alla quale è rilasciato il certificato di esecuzione, anche se il concorrente e l’impresa ausiliaria sono responsabili in solido nei confronti della stazione appaltante in relazione alla prestazione oggetto del contratto”;

– “pertanto, in assenza di una revoca dell’aggiudicazione da parte dell’Amministrazione per vizi nell’avvalimento e stante la pacifica avvenuta esecuzione del contratto con il collaudo dei lavori, nonché l’accettazione della cessione del credito, non vi sono validi motivi per negare il pagamento della somma ingiunta a Unicredit Factoring S.p.a.”.

4.2. Tale “prima ratio decidendi” (così definita in ricorso, ma in realtà è la terza di quelle esposte in sentenza) è dalla ricorrente ritenuta errata in diritto sul rilievo che, in base al combinato disposto del D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 38, comma 1, lett. h) e art. 49, comma 3 (inconferente invece essendo dello stesso art. 49, comma 10, pure evocato in sentenza), nel caso di false dichiarazioni rese, in sede di avvalimento, alla stazione appaltante dalla società ausiliaria dell’appaltatrice, l’aggiudicazione è illegittima e, contrariamente a quanto opinato dalla corte di appello, tale vizio inficia il contratto di appalto eventualmente stipulato, determinandone l’invalidità e/o l’inefficacia, e comunque la caducazione per violazione delle norme inderogabili e cogenti dell’evidenza pubblica, stante la mancanza ab origine, in capo al R.T.I. poi risultato aggiudicatario, dei requisiti di partecipazione alla gara, e ciò a prescindere dall’eventuale stato soggettivo del R.T.I. medesimo.

5. Con il quarto motivo la ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112,115,116,210,213 e 345 c.p.c., in relazione all’affermazione contenuta in sentenza (e che ivi è posta come seconda autonoma ratio decidendi) secondo cui, indipendentemente dalla soluzione da dare alla quaestio iuris sopra esposta, “la (sola) provata pendenza di indagini preliminari relative all’avvalimento da parte dell’A.T.I. delle prestazioni della Safwood non costituisce prova dell’illegittimità del provvedimento di aggiudicazione”.

Osserva di contro la ricorrente che, essendo decisiva ed imprescindibile, ai fini della soluzione della controversia, la questione circa l’effettiva sussistenza (o meno) della descritta condotta fraudolenta da parte della società ausiliaria, i giudici di merito avrebbero dovuto operare un autonomo accertamento al riguardo (anche a prescindere dalle risultanze del processo penale, ancora in corso), utilizzando gli atti a disposizione ed eventualmente avvalendosi di tutti i poteri istruttori previsti dalla legge processuale, in primis gli istituti di cui agli artt. 210 e 213 c.p.c..

6. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, art. 11, applicabile ratione temporis; dell’art. 1421 c.c.; L. 7 agosto 1990, n. 241, artt. 21-quinquies e 21-nonies; L. 20 marzo 1865, n. 2248, artt. 4 e 5, All. E; dell’art. 112 c.p.c..

La censura investe l'”ulteriore ratio decidendi” (in realtà la prima) spesa in sentenza (pagg. 13-14) rappresentata dal rilievo (tratto, per condivisione, non per riconosciuto vincolo di giudicato, da precedente sentenza della stessa corte riguardante la medesima vicenda ma resa in controversia tra P.C.M. e Iterga, cui era rimasta estranea la cessionaria Unicredit) secondo cui, “non avendo l’amministrazione tuttora proceduto in autotutela alla revoca dell’aggiudicazione, il contratto stipulato è valido ed efficace” (e non sarebbe nemmeno consentito al giudice procedere ad accertamento incidentale sulla legittimità dell’aggiudicazione non revocata), con la conseguenza che – nel presente giudizio – “stante la pacifica avvenuta esecuzione del contratto con il collaudo dei lavori, nonché l’accettazione della cessione del credito, non vi sono validi motivi per negare il pagamento della somma… a Unicredit Factoring S.p.a.”.

Osserva di contro l’Amministrazione ricorrente che, essendo la notizia del procedimento penale sopravvenuta alla stipula del contratto di appalto, la stazione appaltante non avrebbe più potuto procedere alla revoca dell’aggiudicazione, ma ciò non impediva di eccepire, in sede giudiziale, la nullità/inefficacia del contratto medesimo né ai giudici di esercitare, anche d’ufficio, il loro potere di disapplicazione dei provvedimenti amministrativi illegittimi L. n. 2248 del 1865, ex artt. 4 e 5, All. E, e, di conseguenza, di dichiarare la nullità o l’inefficacia del contratto di appalto.

7. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1260,1264 e 1267 c.c., per avere la Corte d’appello affermato che, essendo intervenuta l’accettazione del credito, non sussistevano validi motivi per negare il pagamento della somma ingiunta alla cessionaria.

Osserva di contro la ricorrente che – essendo il fatto estintivo del credito (ossia l’ipotetica condotta fraudolenta posta in essere dalla Safwood S.p.a. in sede di avvalimento) intervenuto in data antecedente alla cessione del credito e configurando esso un vizio genetico del contratto di appalto – l’accettazione della cessione non impediva all’Amministrazione di opporlo alla cessionaria.

8. Con il settimo motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 50,115,116 e 345 c.p.c. per avere la Corte d’appello respinto il quinto motivo di appello (con il quale si lamentava l’omessa considerazione da parte del giudice di primo grado del provvedimento di fermo amministrativo della somma in contestazione, disposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento della Protezione civile, ai sensi del R.D. n. 2440 del 1923, art. 69: provvedimento depositato dall’Avvocatura dello Stato nel corso del giudizio dinanzi al Tribunale di Milano) in quanto fondato su documento tardivamente prodotto per la prima volta in appello.

Osserva la ricorrente che se, come ritenuto dalla corte di appello, il processo promosso da Unicredit Factoring S.p.a. dinanzi al Tribunale di Roma non costituisce un nuovo processo, ma la prosecuzione ex art. 50 c.p.c., dell’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dalla P.A. dinanzi al Tribunale di Milano, ne discende, per logica conseguenza, che il predetto provvedimento (essendo stato pacificamente già depositato dall’Avvocatura dello Stato dinanzi al Tribunale di Milano) non costituisce documento nuovo prodotto per la prima volta in appello ma deve considerarsi già ritualmente acquisito agli atti del giudizio prima della riassunzione ex art. 50 c.p.c. e, pertanto, doverosamente utilizzabile anche in appello.

9. Con l’ottavo motivo la ricorrente denuncia, infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 100,287,288,474,653 e 654 c.p.c., nonché degli artt. 324 e 329 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c.”; eccezione di giudicato parziale interno”, in relazione alla dichiarata inammissibilità, per difetto di interesse, del sesto motivo d’appello (con il quale si censurava il provvedimento di correzione del dispositivo della sentenza di primo grado, sul rilievo che la conferma del decreto ingiuntivo opposto, originariamente ivi statuita, non era affatto il frutto di un errore materiale, emendabile con l’esperita procedura di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., ma costituiva un errore di diritto, consistente, in particolare, nella violazione del giudicato del Tribunale di Milano con cui il predetto decreto ingiuntivo era stato dichiarato nullo per incompetenza territoriale del giudice che lo aveva emesso).

Rileva la ricorrente che, contrariamente a quanto ritenuto in sentenza, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in quanto soccombente nel giudizio di primo grado, aveva interesse a far valere l’illegittimità della disposta correzione, atteso che l’accoglimento di tale censura avrebbe comportato il ritorno all’originario dispositivo, il quale – avendo confermato un decreto ingiuntivo che in realtà non esisteva più perché già revocato con forza di giudicato dal Tribunale di Milano – non avrebbe consentito all’appellata Unicredit Factoring di agire in executivis.

10. Rileva il Collegio che i motivi dal terzo al sesto sono inammissibili poiché nessuno di essi è in grado di impedire il giudicato interno che deve ritenersi formato sulla prima delle due rationes decidendi che avevano condotto il tribunale alla condanna dell’amministrazione appaltante: giudicato discendente dal fatto che quella ratio era stata bensì investita da specifico motivo di appello, sul quale però la Corte d’appello ha omesso di pronunciarsi, senza che il conseguente vizio di omessa pronuncia sia stato poi in questa sede dedotto quale motivo di ricorso.

10.1. Dalla lettura del ricorso emerge, invero, che nella sua motivazione il tribunale enunciò, per giustificare l’accoglimento della domanda di Unicredit, una prima autonoma ratio decidendi, imperniata sull’assunto che il fatto estintivo del credito si era verificato dopo la cessione e, dunque, non poteva essere opposto ad Unicredit, cessionaria, dal debitore ceduto.

Alle pagg. 17 – 20 del ricorso è, infatti, riprodotta in fotocopia, con esclusione della sola epigrafe, la sentenza del tribunale; ebbene dalle ultime due righe della seconda pagina di tale riproduzione (pag. 18 del ricorso) sino alla metà della terza (pag. 19 del ricorso) emerge chiaramente tale prima ratio e la sua netta distinzione e autonomia dalla seconda.

Si legge infatti che, secondo il tribunale, la tesi difensiva dell’Amministrazione era “infondata per due motivi almeno”.

Il primo è dato dal rilievo che il dedotto fatto estintivo del credito “è successivo alla notifica della cessione ed anche alla sua accettazione da parte della Presidenza del Consiglio” e che, pertanto, “il debitore ceduto (Presidenza) non può opporre un tale fatto estintivo al cessionario (Unicredit)”.

Posta tale prima affermazione la sentenza passa – con il premettere l’avverbio “comunque” e, dunque, con un’espressione che è sinonimo di “in ogni caso” – ad enunciare una ratio successiva idonea anch’essa a disattendere la difesa della presidenza. Seconda ratio – integrata dal triplice rilievo: a) della mancanza di prova del preteso fatto estintivo (in quanto oggetto ancora solo di indagini penali); b) della estraneità di tale fatto alle regole dell’appalto; c) al più della sua rilevanza quale inadempimento del contratto e non causa di nullità dello stesso – che, valendo “comunque”, venne evidentemente enunciata per il caso che non fosse valida la prima.

10.2. Il tribunale, dunque, fondò la sua decisione su due rationes decidendi, ognuna secondo il primo giudice idonea a disattendere la linea difensiva della presidenza.

Esse dovevano essere impugnate con l’appello tutte e due e lo furono effettivamente entrambe. Infatti: il secondo motivo di appello (riportato in ricorso e di cui riferisce, nella premessa in fatto, anche la sentenza d’appello) censurò la prima ratio; il terzo, quarto e quinto censurarono la seconda.

La lettura della sentenza di appello evidenzia però che il secondo motivo di appello non è stato scrutinato dalla corte capitolina.

Essa, invero, a pag. 12 dice di passare ad esaminare i motivi attinenti al merito della controversia affermando “che possono essere esaminati congiuntamente poiché attengono tutti alla questione dell’incidenza sulla validità del contratto e sull’esistenza del diritto di Unicredit dell’ipotetica truffa aggravata commessa nell’avvalimento”, ma, quand’anche tale espressione possa considerarsi idonea a comprendere pure il secondo motivo, nella successiva motivazione non si dedica in realtà alcuna considerazione alla motivazione censurata con il secondo motivo di appello.

Una tale considerazione non può cogliersi, in particolare, nell’incidentale riferimento (a pag. 15 della sentenza, rigo 7) alla “accettazione della cessione del credito”, posto a conclusione di argomentazioni tutte esclusivamente dedicate alla seconda ratio decidendi adottata dal primo giudice, quella cioè relativa alla (esclusa) idoneità dei fatti dedotti a rappresentare causa di nullità del contratto (non dunque alla prima che, a prescindere da tale questione e in via preliminare, affermava l’inopponibilità di tali fatti alla cessionaria).

10.3. La corte romana è, dunque, palesemente incorsa in una omissione di pronuncia sul secondo motivo di appello.

Tale omissione doveva essere censurata dalla ricorrente, ma ciò non è stato fatto.

I motivi dal terzo al quinto sono, infatti, relativi, come s’è detto, alla seconda ratio decidendi della sentenza di primo grado e, comunque, non riguardano il secondo motivo di appello.

10.4. Il sesto motivo censura poi un’affermazione, quella sull’accettazione della cessione del credito, che non costituì scrutinio del secondo motivo di appello, né è possibile leggerlo come volto in sostanza a denunciare vizio di omessa pronuncia su di esso.

Le argomentazioni svolte non sono idonee ad essere apprezzate in tal senso, in quanto censurano non l’omissione di pronuncia, ma l’asettica affermazione contenuta in sentenza secondo cui, essendo intervenuta “accettazione del credito”, “non vi sono validi motivi per negare il pagamento della somma ingiunta a Unicredit Facotoring S.p.a”: affermazione che certamente non rivela alcun riferimento al secondo motivo di appello.

Nemmeno la ricorrente, del resto, deduce che tale affermazione avrebbe riguardato il secondo motivo di appello e, soprattutto, non fa alcun riferimento alla motivazione del primo giudice.

10.5. Essendovi stata, dunque, omissione di pronuncia sulla prima ratio decidendi del tribunale, diventa inutile scrutinare i motivi dal terzo al sesto in quanto i primi tre attingono direttamente alla seconda ratio e il sesto, come detto, non si duole dell’omissione di pronuncia, che era l’unico modo con cui poteva essere impedita la formazione del giudicato interno sulla statuizione del primo giudice in quanto fondata sulla prima ratio decidendi.

11. Può comunque rilevarsi, ad abundantiam, che ad una declaratorià di inammissibilità dei motivi predetti avrebbe dovuto pervenirsi per ragioni intrinseche, pur prescindendo dalla preliminare e assorbente ragione estrinseca sopra evidenziata.

Tali ragioni vanno individuate nella inammissibilità del quarto motivo di ricorso, di rilievo preliminare e assorbente rispetto agli altri.

Con esso, infatti, si intende attaccare l’assorbente ratio decidendi esposta in sentenza, rappresentata dalla mancanza di un accertamento penale circa la fondatezza dei fatti contestati agli amministratori della Safwood, in quanto viziata dal mancato esercizio dei poteri istruttori attribuiti al giudice ex art. 213 c.p.c., ovvero dalla mancata emissione di ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c..

Occorre però al riguardo rammentare che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, l’esercizio del potere, previsto dall’art. 213 c.p.c., di richiedere d’ufficio alla P.A. le informazioni relative ad atti e documenti della stessa che sia necessario acquisire al processo, costituisce una facoltà rimessa alla discrezionalità del giudice, il mancato ricorso alla quale non è censurabile in sede di legittimità (Cass. 15/05/2020, n. 8983; 20/12/2019, n. 34158; 15/02/2011, n. 3720; 02/09/2003, n. 12789).

Analogamente è a dirsi dell’ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. – che peraltro non si dice nemmeno, tanto meno nel rispetto degli oneri di specificità imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6, se e quando sia stato richiesto -, essendo anche riguardo ad esso costantemente affermato da questa Corte il principio secondo cui la valutazione concernente la ricorrenza dei relativi presupposti è rimessa al giudice di merito e il mancato esercizio da parte di costui del relativo potere discrezionale non è sindacabile in sede di legittimità (v. Cass. 07/01/2021, n. 52; 07/07/2011, n. 14968; 24/04/2004, n. 7855; 19/09/2002, n. 13721).

Restando pertanto inammissibilmente attinta dal ricorso la autonoma e autosufficiente ragione giustificativa della sentenza impugnata (rappresentata per l’appunto dal rilievo della mancata prova della fondatezza delle accuse poste a fondamento della dedotta illegittimità dell’aggiudicazione e della conseguente nullità del contratto d’appalto) rimangono assorbite le altre censure, in quanto riferite alle diverse e solo subordinate rationes decidendi rappresentate dal rilievo impediente attribuito alla mancata revoca in autotutela dell’aggiudicazione (quinto motivo) e dalla inidoneità di quelle condotte oggetto di accusa a determinare la nullità del contratto di appalto (terzo e sesto motivo).

12. Il settimo motivo si espone a diversi rilievi di inammissibilità.

12.1. Non è anzitutto indicato, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, se il documento di cui parla (fermo amministrativo) fosse rimasto nel fascicolo di parte opponente e con esso nel fascicolo d’ufficio del tribunale meneghino, eventualmente acquisito ai sensi dell’art. 126 dal tribunale romano; né se ne riproduce il contenuto.

12.2. Comunque, consolidatasi, come visto, la prima ratio del tribunale, il documento diventa non decisivo, sicché l’ipotetica violazione dell’art. 345 c.p.c., resterebbe non deducibile ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 2.

Va in proposito rammentato che, come costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte, per evidenziare la violazione di una norma del procedimento agli effetti dell’art. 360 c.p.c., n. 4, è necessario rispettare il requisito di ammissibilità di cui all’art. 360-bis c.p.c., n. 2: è necessario cioè che la censura di violazione della norma del procedimento (nella specie, per omessa pronuncia su un motivo di gravame) venga evidenziata con caratteri tali da palesare che sono stati violati “i principi regolatori del giusto processo”.

Tale formulazione, sebbene evocativa dei contenuti dell’art. 111 Cost., comma 1, siccome poi specificati dal comma 2 e dagli altri commi della norma, secondo la ricostruzione preferibile si presta a sottendere, piuttosto che la necessità che l’inosservanza della norma del procedimento abbia violato il principio secondo qualcuna di quelle specificazioni (posto che ogni violazione di norma del procedimento si concreta almeno in una lesione del contraddittorio e/o del diritto di difesa come regolato dalle forme previste e, dunque, risulterebbe lesiva delle regole del giusto processo, con conseguente inutilità dell’art. 360-bis, n. 2), in realtà il carattere che la violazione della norma del procedimento deve avere, perché possa denunciarsi in Cassazione; carattere che, anche prima dell’introduzione dell’art. 360-bis, n. 2, si esprimeva nell’essere stata la violazione denunciata decisiva, cioè incidente sul contenuto della decisione e, dunque, arrecante un effettivo pregiudizio a chi la denunciava (così Cass. n. 22341 del 26/09/2017, cui adde conff. ex multis, tra le più recenti, in motivazione, Cass. n. 25359 del 20/09/2021; n. 2926 del 08/02/2021; n. 29903 del 30/12/2020; n. 28440 del 14/12/2020; n. 17966 del 27/08/2020; n. 26087 del 15/10/2019).

13. L’ottavo motivo è infondato, seppure per motivi diversi da quelli addotti in sentenza che sul punto argomenta solo sul difetto di interesse, occorrendo sul punto solo provvedere alla correzione della motivazione, ex art. 384 c.p.c., comma 4.

Deve invero rilevarsi che la supposta illegittimità del provvedimento di correzione in effetti non v’era, rettamente il primo giudice avendo ritenuto trattarsi di errore materiale suscettibile di emenda ai sensi degli artt. 287 e 288 c.p.c..

Detto giudice aveva invero dato atto, in motivazione, che il Tribunale di Milano aveva accolto il primo motivo di opposizione a decreto ingiuntivo fondato sulla dedotta incompetenza per territorio del giudice che lo aveva emesso. In tale pronuncia, come s’e’ detto, è necessariamente implicita la revoca del decreto medesimo, di guisa che, nel darne atto, il Tribunale di Roma aveva per ciò stesso dato atto anche della sua irreversibile caducazione e del suo conseguente venir meno dal residuo tema di lite. Ne discende l’obiettiva e univoca riconoscibilità quale mero errore materiale del dispositivo che invece, nel suo testo originario, statuiva il rigetto dell’opposizione e la conferma del decreto ingiuntivo.

14. Per le considerazioni che precedono il ricorso principale deve essere in definitiva rigettato, rimanendo di conseguenza assorbito l’esame di entrambi i ricorsi incidentali condizionati.

Avuto riguardo alla complessità delle questioni trattate si ravvisano i presupposti per l’integrale compensazione delle spese.

15. Non può trovare applicazione l’obbligo di versare, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, essendo la ricorrente una Amministrazione dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, è esentata dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (v. Cass. 29/12/2016, n. 27301; Cass. 29/01/2016, n. 1778; v. anche Cass., Sez. U., 08/05/2014, n. 9938; Cass. 14/03/2014, n. 5955).

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale; dichiara assorbiti i ricorsi incidentali condizionati. Compensa integralmente le spese processuali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 5 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 dicembre 2021

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