In materia di compravendita di beni mobili di interesse storico-culturale perfezionatasi all'estero, l'accertamento in ordine alla proprietà dei beni in contesa è regolato, ai sensi dell'art. 51 della l. 218 del 1995, dalla legge dello Stato in cui i beni si trovavano all'atto del perfezionamento della fattispecie acquisitiva, salvo che, a norma dell'art. 16 della medesima l. 218 del 1995, l'applicazione della legge straniera determini effetti contrari ai principi di ordine pubblico, tra i quali rientra, alla luce della Convenzione Unesco di Parigi del 1970, ratificata dall'Italia con l. 873 del 1975, la tutela di beni aventi natura storico – culturale.
Ne consegue che non costituisce titolo idoneo, ai fini dell'applicazione del principio "possesso vale titolo", di cui all'art. 1153 c.c., il contratto di acquisto di un bene avente natura storico–culturale stipulato in base ad una normativa nazionale contrastante con il divieto di esportazione illegale, ovvero non autorizzata, di detti beni sancito dall'art. 3 della Convenzione Unesco.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi G. – Presidente –
Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso (iscritto al N. R.G. 18106/2017) proposto da:
T.M., (C.F.: *****), in proprio e quale legale rappresentante pro-tempore della T. S.R.L. (P.I.: *****), rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale apposta in calce al ricorso, dagli Avv.ti Pietro Sirena, e Massimo Penco, ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Cesare Massimo Bianca, in Roma, via Po, n. 43;
– ricorrente –
contro
CONSOLATO GENERALE DEL PERU’ a *****, (C.F.: *****), in persona del Console generale pro-tempore, rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale in calce al controricorso, dall’Avv. Pietro Celli, ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Andra Bandini, in Roma, Viale Liegi, n. 35/B;
– controricorrente –
e CONSOLATO GENERALE DELLA REPUBBLICA DEL CILE, (C.F.: *****), in persona del Console generale pro-tempore, e C.N.J., rappresentati e difesi, in virtù di procura speciale apposta in calce al controricorso, dall’Avv. Lidia Sgotto Ciabattini, ed elettivamente domiciliati presso il suo studio, in Roma, Piazzale Clodio, n. 32;
– altri controricorrenti –
avverso la sentenza della Corte di appello di Milano n. 2252/2017 (pubblicata il 25 maggio 2017);
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26 gennaio 2022 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;
udito il P.M., in persona del Sostituto procuratore generale Dott.ssa Dott. Ceroni Francesca, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli Avv. ti Maurizio Morganti, (per delega) nell’interesse del ricorrente, Lidia Sgotto Ciabattini per i controricorrenti Consolato Generale del Cile a ***** e C.N.J., nonché
l’Avv. Pietro Celli per il controricorrente Consolato Generale del Perù a *****.
RITENUTO IN FATTO
1. Con atto di citazione notificato nel novembre 2011 il sig. T.M., in proprio e quale legale rappresentante pro-tempore della T. s.r.l., conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, il Consolato Generale della Repubblica del Cile, il Consolato Generale della Repubblica del Perù, nonché personalmente i rispettivi Consoli C.N.J. e A.A.M., esponendo: – che nel giugno 2008 il P.M. presso il Tribunale di Milano, all’esito di una segnalazione dei c.c., aveva sottoposto a sequestro 21 manufatti di arte precolombiana da lui acquistati, quale titolare di una galleria d’arte milanese specializzata nel campo dell’arte tessile, procedendo nei suoi confronti, tra l’altro, per il reato di ricettazione; – che i beni sequestrati a fini probatori erano stati consegnati, mediante decreto cautelare emesso dallo stesso P.M. procedente, ai Consolati del Perù e del Cile, i quali ne avevano, però, rifiutato la restituzione invocando le prerogative garantite agli uffici consolari di diritto internazionale; – che il decreto da ultimo citato era stato revocato dal GIP, con provvedimento confermato dalla Corte di cassazione penale, essendone stata rilevata l’abnormità; – che esso attore aveva, quindi, ottenuto in sede cautelare dal Tribunale di Milano il sequestro conservativo dei tessuti di arte e l’ordine di restituzione in suo favore degli stessi in qualità di custode.
Sulla base di tale rappresentazione della vicenda fattuale, chiedeva che venisse accertato e dichiarato il suo diritto di proprietà su detti beni nonché che i convenuti fossero condannati al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali.
Si costituiva in giudizio il Consolato generale del Perù, il quale eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice italiano e, comunque, l’incompetenza territoriale dell’adito Tribunale di Milano, eccependo, nel merito, la tardività della proposizione della domanda ai sensi della L. n. 213 del 1999, art. 3, comma 3, e che, in ogni caso, l’attore non poteva essere considerato quale possessore in buona fede dei beni controversi. Le altre parti convenute rimanevano contumaci e, peraltro, l’attore dichiarava di rinunciare alle formulate domande nei confronti di A.A.M..
In pendenza del giudizio di primo grado, il citato Consolato generale del Perù proponeva regolamento preventivo di giurisdizione dinanzi alle Sezioni unite di questa Corte, le quali, con ordinanza n. 19784/2015, lo rigettavano, dichiarando la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano.
All’esito dell’esperita istruzione probatoria, il Tribunale di Milano, con sentenza n. 1077/2016, respingeva tutte le domande attoree, dichiarando compensate le spese giudiziali tra le parti costituite.
2. Decidendo sull’appello avanzato dal T., nella duplice qualità, e nella costituzione di entrambi i Consolati appellati e di C.N.J., la Corte di appello di Milano, con sentenza n. 2252/2017 (pubblicata il 25 maggio 2017), rigettava il gravame, confermando l’impugnata sentenza e dichiarando interamente compensate tra le parti le spese del grado.
A fondamento dell’adottata pronuncia la Corte territoriale – disattesa l’eccezione di inammissibilità del gravame riferita all’art. 342 c.p.c. – ha rilevato l’infondatezza di tutti i motivi formulati dall’appellante relativi alle asserite violazioni delle disposizioni e dei principi contenuti nella L. n. 218 del 1995, del principio di reciprocità previsto dall’art. 16 preleggi, del principio di irretroattività nonché del principio dell’acquisto della proprietà “a non domino” di cui all’art. 1153 c.c..
Premesso l’inquadramento sulla peculiare natura degli oggetti d’arte per cui era stata instaurata la controversia (risalenti ad epoca precolombiana e di chiara destinazione funeraria, con valore storico-culturale sostanzialmente inestimabile ma non particolarmente apprezzabile sul piano economico in considerazione delle usuali quotazioni di opere d’arte), la Corte di appello si e’, in primo luogo, interrogata sulla individuazione della legge in concreto applicabile alla luce delle norme in materia di diritto internazionale privato e sulla correlata rilevanza dei principi stabiliti dalle Convenzioni internazionali al riguardo, con l’indicazione dei conseguenti riflessi sull’ordinamento italiano.
A tal proposito il giudice di secondo grado ha posto in via principale riferimento al disposto della L. n. 218 del 1995, art. 51, comma 1, rilevando, innanzitutto, la necessità di risalire al Paese in cui tali beni erano stati acquistati.
Sul punto, detto giudice – sulla scorta di una dettagliata valutazione degli elementi probatori acquisiti – ha evidenziato che l’appellante non aveva prodotto alcuna documentazione con riferimento ad alcuni beni oggetto dell’azione di rivendicazione mentre per altri non ne era rimasto univocamente comprovato il titolo di provenienza.
In particolare, la Corte milanese ha rilevato che l’appellante non aveva fornito alcun idoneo riscontro probatorio in merito ai titoli dei beni numerati sub 6, 9, 10 e 13 dell’elencazione risultante dalla relazione del c.t.u., nonché di quelli sub 7 e 11 dell’elenco del verbale di sequestro, ovvero dei beni restituiti al Consolato del Cile, in relazione ai quali, perciò, non era possibile nemmeno individuare la legge applicabile e, comunque, desumere alcun elemento da cui evincere le modalità di acquisto. Ne’ un idoneo riscontro del titolo di provenienza era emerso con riguardo agli altri beni, salvo a discutersi dell’acquisto da parte di venditori domiciliati in Italia dei manufatti indentificati con i nn. 3, 4, 5 e 8, per i quali era rimasto dimostrato che la fattispecie acquisitiva si era perfezionata in Italia, con conseguente applicabilità del diritto italiano, sottolineandosi che la materia della circolazione dei beni culturali è stata oggetto di varie Convenzioni internazionali e, in particolare, di quella Unesco di Parigi del 1970 (ratificata in Italia con la L. n. 873 del 1975), di quella Unesco del 1972 (ratificata nell’ordinamento italiano con la L. n. 184 del 1977) e della Convenzione Unidroit del 1995 sui beni culturali rubati o illecitamente esportati (recepita in Italia con la Legge di ratifica n. 213 del 1999), dalle quali è evincibile che la tutela di siffatti beni è riconducibile all’affermazione di un principio di ordine pubblico internazionale.
Pertanto, dovendosi tener conto dell’assunzione degli specifici obblighi da parte dello Stato italiano in materia di tutela del patrimonio culturale proprio per effetto della sua adesione alle citate Convenzioni internazionali, la Corte di appello ha osservato – sul presupposto che tutti i rivendicati acquisti degli oggetti controversi erano stati fatti risalire ad un tempo successivo alle indicate Convenzioni (e, quindi, alle correlate leggi di ratifica) – che le previsioni di queste ultime devono considerarsi incidenti anche sulla valutazione dell’elemento della buona fede rilevante in funzione dell’applicabilità dell’art. 1153 c.c., sottolineandosi al riguardo la particolare importanza della previsione contenuta nell’art. 4 Legge di ratifica (della Convenzione Unidroit) n. 213 del 1999, alla stregua della quale il riconoscimento del diritto all’equo indennizzo in favore del possessore di un bene culturale rubato è subordinato alla condizione che quest’ultimo non abbia saputo o avrebbe dovuto ragionevolmente sapere che il bene era stato rubato o che possa provare che abbia agito con la dovuta diligenza in occasione dell’acquisto.
Pertanto, sul presupposto che la buona fede deve riguardare non solo la qualità di proprietari dei venditori, ma anche la legittimità della cessione del bene e, dunque, della sua circolazione, la Corte di appello – valorizzando la particolare condizione dell’acquirente (essendo uno dei maggiori esperti di arte tessile antica) – ha ritenuto che, proprio per la peculiare natura e qualità degli oggetti che al T. non poteva sfuggire, andava escluso che potesse affermarsi la sua buona fede quale acquirente o, quantomeno, una buona fede non connotata da colpa grave, in difetto di una precisa tracciabilità del percorso degli oggetti e della data della loro esportazione, in modo tale da poter desumere che essa fosse avvenuta in epoca in cui non esisteva ancora alcuna sensibilità per la tutela dei beni culturali nell’ambito dell’ordinamento internazionale, con conseguente introduzione di vincoli, e non era stata emanata alcuna legge restrittiva nell’ambito del Paese di origine.
La Corte territoriale ha, inoltre, ritenuto – sulla base degli stessi principi – che l’appellante non aveva dimostrato la sua buona fede nemmeno con riferimento al possesso della parte dei beni oggetto di acquisti effettuati in altri Paesi.
In via consequenziale, infine, la Corte di secondo grado ha escluso – stante l’infondatezza della domanda di rivendicazione – l’insussistenza delle condizioni per l’insorgenza di un diritto al risarcimento del danno in favore dell’appellante per la mancata disponibilità dei beni costituenti oggetto della stessa. Ha aggiunto la Corte di appello che tale domanda, così come quella restitutoria, non avrebbe potuto trovare accoglimento per il fatto che l’appellante era stato nominato custode sia in sede penale che civile, a seguito dell’adozione dei provvedimenti di sequestro dei beni. Ciò perché, non solo trattavasi di provvedimenti di natura cautelare e provvisoria da ritenersi superati dall’accertamento dell’assenza dei presupposti per un valido acquisto della proprietà, ma anche in quanto, rispetto alla specifica richiesta risarcitoria, non era emerso, né era stato dal T. indicato, quale sarebbe stato il pregiudizio subito per non aver potuto ottenere la custodia durante lo svolgimento del giudizio di rivendicazione.
3. Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione, riferito a sei motivi, il T.M. (nella duplice qualità spesa). Hanno resistito, con distinti controricorsi, da un lato, il Consolato generale del Perù a ***** e, dall’altro lato, congiuntamente il Consolato generale della Repubblica del Cile (con sede in *****) e C.N.J..
Le difese delle parti controricorrenti hanno anche depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo complesso motivo il ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – il vizio di extrapetizione e della conseguente nullità della sentenza, nonché la violazione o falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, art. 14, comma 1 e art. 51 nonché dell’art. 2697 c.c., oltre alla violazione o falsa applicazione degli artt. 922,948,832,1343,1418 e 2697 c.c.. In particolare, il ricorrente ha inteso dedurre che, nella concreta controversia instauratasi tra le parti, il giudice di appello avrebbe dovuto porre a fondamento dell’impugnata sentenza il fatto che i contratti allegati da esso T. come titoli di acquisto della proprietà dei beni dedotti in giudizio erano disciplinati dalla “lex rei sitae” e che, per tale ragione, non era ad essi applicabile la legge peruviana allegata dalle parti resistenti, precisandosi che lo stesso giudice avrebbe dovuto basare la sua decisione sul fatto che esso ricorrente aveva acquistato i controversi beni “a domino”, con il conseguente accoglimento della proposta domanda di rivendicazione, senza poter prendere in considerazione altri aspetti che non erano stati ritualmente prospettati in giudizio.
2. Con la seconda censura il ricorrente ha prospettato – con riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione fra le parti (con riferimento alla mancata valutazione della circostanza che egli era stato assolto, sia in sede giudiziaria italiana che in quella peruviana, da ogni ipotesi di reato inerente all’eventuale furto dei beni in questione ovvero in ordine alla loro esportazione illegittima), nonché – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, art. 14, comma 1 e art. 51 e dell’art. 2697 c.c., oltre alla violazione o falsa applicazione degli artt. 922,948,832,1343,1418 e 2697 c.c., non potendosi ritenere che dalle fonti del diritto internazionale richiamate nell’impugnata sentenza fosse desumibile alcun principio di ordine pubblico suscettibile di determinare la nullità dei titoli di acquisto della proprietà dei beni controversi.
3. Con il terzo mezzo il ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – il vizio di nullità dell’impugnata sentenza unitamente alla violazione o falsa applicazione degli artt. 1153,922,948,832,1343,1418 e 2697 c.c.. A conforto di questa doglianza il ricorrente ha affermato che, con riguardo alla sua condizione di buona fede, vi era stato un accertamento del giudice di primo grado e che, ai sensi dell’art. 1153 c.c., la buona fede non è una mera eccezione, ma un elemento costitutivo della fattispecie, onde, non essendo stata impugnata in appello, la relativa statuizione del giudice di prime cure si sarebbe dovuta considerare ormai definitiva e, quindi, passata in giudicato anche sul piano sostanziale. Da qui, la Corte di appello avrebbe dovuto rilevare che, oltre alla validità degli atti di acquisto degli oggetti tessili per cui era causa, non viziati da nullità, si era venuta a configurare la fattispecie acquisitiva dei medesimi oggetti posseduti da esso ricorrente (se non a titolo derivativo) ai sensi dell’art. 1153 c.c.
4. Con la quarta censura il ricorrente ha denunciato – in ordine all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – l’omessa pronuncia sulla domanda di consegna in suo favore dei beni nella qualità di custode, affinché essi permanessero presso di lui sotto il vincolo del sequestro, nonché sulle richieste risarcitorie conseguenziali.
5. Con il quinto motivo il ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 1, 3, 4, 5 e 6 della Convenzione Unidroit del 1995 sui beni culturali rubati o illecitamente esportati, nonché della Legge di ratifica n. 213 del 1999, anche in relazione agli artt. 112,115 c.p.c. e art. 2697 c.c., sul presupposto che, con l’impugnata sentenza, il giudice di appello non aveva adottato alcuna pronuncia in merito alla domanda di indennizzo svolta in via subordinata da esso ricorrente, malgrado avesse documentalmente supportato i titoli di acquisto dei beni in contesa e nonostante i Consolati appellati non avessero agito giudizialmente per ottenere il riconoscimento del diritto alla restituzione dei medesimi beni.
6. Con la sesta ed ultima censura il ricorrente ha lamentato – con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. anche in relazione all’art. 112 c.p.c., per non essersi la Corte di appello pronunciata sulla sua richiesta risarcitoria del danno non patrimoniale riconducibile al rifiuto di esecuzione dei provvedimenti giudiziali di sequestro da parte dei citati Consolati, dovendosi, peraltro, ritenere il danno sussistente “in re ipsa” per effetto dell’accertamento del suo diritto di proprietà sugli oggetti tessili dedotti in causa.
7. Rileva il collegio che il primo motivo è infondato e deve, pertanto, deve essere rigettato per le ragioni che seguono.
In via generale, occorre, innanzitutto, sottolineare che – secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 21745/2006 e Cass. n. 2297/2011) – il vizio di extrapetizione o di ultrapetizione ricorre solo quando il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti e pronunciando oltre i limiti del “petitum” e delle eccezioni “hinc ed inde” dedotte, ovvero su questioni che non siano state sollevate e che non siano rilevabili d’ufficio, attribuisca alla parte un bene non richiesto, e cioè non compreso nemmeno implicitamente o virtualmente nella domanda proposta. Ne consegue che tale vizio deve essere escluso qualora il giudice, contenendo la propria decisione entro i limiti delle pretese avanzate o delle eccezioni proposte dalle parti, e riferendosi ai fatti da esse dedotti, abbia fondato la decisione stessa sulla valutazione unitaria delle risultanze processuali, pur se in base ad argomentazioni o considerazioni non prospettate dalle parti medesime.
Orbene, la Corte milanese, con la sentenza qui impugnata, non è incorsa nel denunciato vizio di extrapetizione né nelle ulteriori denunciate violazioni dal momento che essa si è pronunciata sulla proposta domanda di rivendicazione del T. e sulle contrapposte eccezioni degli appellati Consolati, con le quali era stata contestata la legittimità del possesso dei beni dedotti in controversia da parte dell’odierno ricorrente in base al loro possibile illecito trafugamento od illegittima esportazione dal Cile e dal Perù e, comunque, la sussistenza di una condizione di buona fede in capo allo stesso T. nel trasferimento dei beni, per effetto del mancato assolvimento del relativo onere probatorio su di esso incombente in riferimento al tipo di azione esperita.
Pertanto, sulla base di tali complessive difese prospettate e senza, quindi, fuoriuscire dal “thema decidendum”, la Corte di appello ha proceduto ad una valutazione unitaria delle risultanze processuali legittimamente acquisite con riferimento all’accertamento della provenienza dei beni in questione e, quindi, alla verifica della fondatezza o meno del rivendicato titolo di proprietà sugli stessi da parte del T., prevenendo al risultato che quest’ultimo non aveva prodotto alcun documento giustificativo relativo all’acquisto di alcuni beni mentre di altri non era stato possibile accertare chiaramente il titolo di provenienza. A tal riguardo, il giudice di secondo grado ha proceduto – con motivazione certamente adeguata, perciò insindacabile nella presente sede di legittimità, e rapportata specificamente a tutti i documenti prodotti in causa – ad una analisi dettagliata (v. pagg. 8-10 dell’impugnata sentenza) delle fatture e delle dichiarazioni acquisite e riportate nella relazione del c.t.u. e, in base alle inerenti risultanze (dalle quali non era, comunque, emersa alcuna autorizzazione governativa alla loro esportazione), ha dovuto compiere la necessaria operazione preliminare concernente la individuazione della normativa territoriale applicabile alle fattispecie acquisitive dei singoli beni.
A tal proposito la Corte ha posto correttamente riferimento al disposto della L. n. 218 del 1995, art. 51, comma 1, ragion per cui l’accertamento della proprietà sui beni avrebbe dovuto intendersi regolata dalla legge dello Stato in cui i beni si trovavano all’atto in cui tali fattispecie si erano venute a perfezionare.
Sulla scorta di tale presupposto la stessa Corte ha rilevato l’applicabilità della legge italiana solo in relazione ai beni identificati con i nn. 3, 4 e 8 ovvero per quei beni la cui fattispecie acquisitiva si era perfezionata sul territorio italiano, mentre per gli altri beni oggetto del contendere – pacificamente di natura storico-culturale – ha correttamente distinto tra quelli riferibili agli acquisti di cui ai nn. 6, 9, 10 e 13 della stessa elencazione del c.t.u., in relazione ai quali non era stato possibile individuare la legge applicabile (essendo sprovvisti i relativi documenti di qualsiasi idoneo elemento da cui poter evincere la modalità acquisitiva), e quelli riconducibili ai nn. 1, 2, 7, 11, 12, 13 e 15 per i quali si sarebbe dovuta applicare la legge dello Stato (diverso dall’Italia) da individuare in relazione al citato disposto della L. n. 218 del 1995, art. 51, comma 1, ma tenendo conto, però, della previsione di cui al precedente art. 16, comma 1, che impedisce l’applicazione della legge straniera qualora i suoi effetti risultino contrari all’ordine pubblico. E, nel caso di specie, la tutela del divieto dell’esportazione illegale (ovvero non autorizzata) dei beni di incontestata provenienza peruviana ed aventi natura storico-culturale concretava un principio di ordine pubblico ostativo all’applicazione della normativa di quel Paese (peraltro comunque restrittiva ai fini della circolazione di siffatti tipi di beni e consentita sempre previa autorizzazione statale: v. richiami normativi riportati a pag. 13 della sentenza), ragion per cui la materia si sarebbe dovuta considerare disciplinata ed interpretabile alla luce delle conferenti Convenzioni internazionali, ratificate dallo Stato italiano. Dunque, dallo sviluppo logico-giuridico dell’impianto motivazionale della sentenza qui impugnata si desume che la Corte di appello non ha inteso applicare la Legge peruviana n. 6634 del 1929 né la normativa sopravvenuta di quello Stato, bensì rilevare l’invalidità dei titoli di acquisto vantati dal T. riconducibile, in via principale, alla violazione dell’art. 3 della Convenzione Unesco di Parigi del 1970 (ratificata in Italia con la L. n. 873 del 1975).
8. Anche il secondo motivo si appalesa privo di fondamento e va respinto.
Per quanto riguarda le supposte violazioni di legge prospettate è sufficiente richiamare quanto già evidenziato in risposta al precedente motivo con riguardo all’applicabilità, nella fattispecie e come inequivocamente e correttamente ritenuto nell’impugnata sentenza, del principio di ordine pubblico internazionale riconducibile alla Convenzione Unesco del 1970 (ratificata – come detto – dallo Stato italiano con l’apposita Legge di recepimento n. 873 del 1975), secondo cui, in difetto di prova contraria, sono da considerarsi illeciti l’importazione ed il trasferimento di proprietà di beni culturali effettuati in contrasto con le disposizioni adottate dagli Stati partecipanti in virtù della stessa Convenzione.
La Corte di appello non ha conferito alcuna rilevanza alla invocata Convenzione Unidroit del 1995 ai fini dell’estrapolazione di altri principi di ordine pubblico internazionale, risultando, invece, valorizzata – come si vedrà in seguito – solo in via interpretativa ai fini della possibile configurazione di uno stato di buona fede in capo al T. in coordinamento con le norme civilistiche interne.
Ne’ si è venuto a configurare il vizio dell’omesso esame di un fatto decisivo ricollegato alla mancata valutazione (oltre al procedimento penale riguardante lo stesso T., invece considerato) da parte della Corte territoriale, dei profili riguardanti le vicende penali che hanno riguardato i due Consoli, poiché il denunciato vizio attiene, in effetti, a circostanze non decisive ai fini di un possibile raggiungimento di un esito diverso della controversia. Infatti, i profili penalistici delle richiamate vicende sono da distinguersi – avendo una loro propria autonomia ed essendo fondato l’accertamento di eventuali reati su presupposti diversi – da quelli civilistici specificamente implicati dall’azione di rivendicazione instaurata dall’odierno ricorrente (con accollo del relativo onere probatorio a suo carico e per il cui accoglimento è necessario – di regola – la “probatio diabolica” della titolarità del diritto di chi agisce: cfr., tra le più recenti, Cass. n. 1210/2017 e Cass. n. 25052/2018), senza produrre alcun effetto né di influenza né di interferenza.
9. Pure la terza censura non coglie nel segno e va, perciò, disattesa.
La Corte di appello ha correttamente ritenuto che nella valutazione della buona fede rilevante ai fini dell’art. 1153 c.c. non basta che essa sussista con riferimento al momento della consegna del bene, ma occorre indispensabilmente che sia anche accertata la sussistenza di un titolo idoneo al trasferimento della proprietà e, quindi, tale da rendere legittima la sua circolazione (cfr. Cass. n. 2563/1982; Cass. n. 6007/2019 e, da ultimo, Cass. n. 2612/2021).
A tal proposito la stessa Corte ha, per un verso, rilevato che mancava un titolo valido idoneo al trasferimento proprio per effetto dell’illegittima provenienza dei beni (a causa dell’esportazione o, comunque, della loro immissione illegittima nel territorio italiano, in difetto di un’apposita autorizzazione dei Paesi di provenienza), ma ha escluso anche che il T. potesse, comunque, considerarsi in buona fede. E ciò sulla base di un più che motivato ed insindacabile convincimento desunto sia dalla sua particolare qualità soggettiva (essendo uno dei maggiori esperti di arte tessile antica e dedito al commercio e ad iniziative culturali nello specifico settore), sia dalla natura e della qualità degli oggetti per i quali avrebbe dovuto essere in grado di controllare con sicurezza la precisa tracciabilità e con certezza la data della loro esportazione, ragion per cui la sua condotta si sarebbe dovuta considerare quantomeno affetta da colpa grave.
Il giudice di appello ha, poi, giustamente confortato tale approdo valutativo anche sulla scorta dei canoni previsti dalla Convenzione Unidroit (pure essa recepita nell’ordinamento giuridico italiano) e, in particolare, del criterio evincibile dal suo art. 4, laddove il diritto all’equo indennizzo in favore di un possessore di un bene culturale rubato (quindi di provenienza illecita) è subordinato all’assolvimento, da parte del possessore, di provare che lo stesso si trovi nella condizione di non poter ragionevolmente sapere dell’illegittima provenienza del bene e, soprattutto, di aver agito con la dovuta diligenza in occasione dell’acquisto ovvero all’atto di esserne entrato in possesso (circostanze, queste, che, non essendo state riscontrate dal T., hanno ulteriormente avvalorato l’insussistenza della sua buona fede in riferimento al caso concreto).
Con riguardo, inoltre, alla supposta violazione degli artt. 346 e 324 c.p.c. è agevole ravvisarne l’infondatezza sulla scorta del consolidato principio giurisprudenziale (cfr., ad es., Cass. n. 24021/2010 e Cass. n. 24124/2016) in base al quale la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado (e gli odierni controricorrenti lo erano stati), difettando di interesse al riguardo, non ha l’onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale per richiamare in discussione “le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado”, da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perché assorbite o anche quelle esplicitamente respinte qualora l’eccezione mirava a paralizzare una domanda comunque respinta per altre ragioni, ma è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello in modo tale da manifestare la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo, ai sensi dell’art. 346 c.p.c.. E, con riferimento alla vicenda processuale in esame, le parti appellate (v., sul punto, la riproduzione riportata a pag. 6 dell’impugnata sentenza) avevano riproposto – richiamando espressamente le difese prospettate in primo grado – l’eccezione relativa all’assenza della buona fede in capo al T., nonché quella riguardante l’incommerciabilità dei beni ritrovati in suo possesso congiuntamente all’inesistenza di un titolo astrattamente idoneo al loro trasferimento, ulteriore e necessaria condizione prescritta dall’art. 1153 c.c..
10. Anche il quarto motivo è infondato e deve essere respinto.
Infatti, non sussiste all’evidenza il denunciato vizio di omessa pronuncia dal momento che il profilo relativo alla domanda di consegna dei beni al T. nella sua qualità di custode, affinché permanessero presso di lui sotto il vincolo del sequestro (in uno alle richieste risarcitorie conseguenti), risulta espressamente esaminato dal giudice di appello che, con motivazione logica ed adeguata, ha rilevato che la domanda di restituzione dei beni in favore dell’odierno ricorrente non poteva essere accolta neanche nella sua qualità di custode in dipendenza dei provvedimenti di dissequestro adottata in sede penale e civile. Invero – ha congruamente ritenuto la Corte di appello – tali provvedimenti cautelari e con efficacia provvisoria avrebbero dovuto considerarsi recessivi di fronte all’accertamento dell’assenza del presupposto di un valido acquisto, senza oltretutto, trascurare la circostanza che lo stesso T. non aveva dedotto nel giudizio di rivendicazione in che cosa sarebbe consistito il pregiudizio della lamentata mancata consegna.
11. Il quinto motivo è anch’esso da rigettare.
Diversamente da quanto con esso prospettato, infatti, la Corte di appello – al fine di dirimere il conflitto sulla titolarità dei beni – ha avuto riguardo, oltre che alla disciplina civilistica italiana, unicamente alla Convenzione Unesco del 1970 (contenente la disciplina degli oggetti della natura in questione rubati o illecitamente esportati e ratificata in Italia con la L. n. 873 del 1975), dal quale era evincibile il principio di ordine pubblico internazionale di cui si è discorso in risposta al secondo motivo, nel mentre il riferimento alla Convenzione Unidroit del 1995 è stato operato solo a scopo ermeneutico per avvalorare ulteriormente i presupposti necessari per la sussistenza della buona fede in capo al possessore al fine di ottenere l’indennizzo conseguente alla restituzione dei beni già da considerarsi appartenenti “ab origine” agli Stati di provenienza (ossia al loro patrimonio culturale), in mancanza, per l’appunto, dell’emergenza di un diverso e legittimo titolo di proprietà (anche per effetto del rilascio di un’apposita autorizzazione alla loro esportazione). E tale indennizzo non avrebbe potuto essere riconosciuto al T., dovendosi escludere la sua buona fede per le ragioni svolte nella motivazione dell’impugnata sentenza nei sensi precedentemente riportati.
12. La sesta ed ultima censura è pur essa priva di fondamento poiché, in conseguenza della rilevata insussistenza delle condizioni per l’accoglimento della domanda di rivendicazione, la Corte di appello ha ritenuto logicamente consequenziale escludere qualsiasi diritto al risarcimento del danno invocato dal T., anche del tipo non patrimoniale in difetto di un comprovato accertamento definitivo di condanna in sede penale a carico dei Consoli peruviano e cileno.
13. In definitiva, alla stregua di tutte le complessive ragioni esposte, il ricorso deve essere integralmente respinto.
Sussistono idonee ragioni per la novità delle questioni trattate (anche in assenza di pregressi orientamenti giurisprudenziali di questa Corte al riguardo) per disporre la compensazione totale delle spese in relazione a tutti i rapporti processuali instauratisi in questa sede di legittimità.
Infine, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del presente giudizio tra tutte le parti.
Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 26 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2022
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