La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia di cui all’art. 2051 c.c. si basa su un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l'evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima.
È quanto ribadito dalla Cassazione, sezione III civile, con la sentenza n. 16034 del 7 giugno 2023.
Il caso di specie riguarda una signora che ha citato in giudizio il comune di Roma, affermando di essere caduta a causa di un avvallamento del terreno causato dal cedimento dell'asfalto. Il giudice di primo grado ha attribuito il danno al comportamento negligente dell'appellante, ritenendo che, date le condizioni di tempo e luogo e la dimensione dell'avvallamento, la caduta avrebbe potuto essere evitata con l'uso della ordinaria diligenza.
La Suprema Corte, tuttavia, ha richiamato la decisione delle Sezioni Unite n. 20943 del 2022, secondo cui la responsabilità sancita dall'art. 2051 del codice civile ha carattere oggettivo e non presunto. In altre parole, è sufficiente dimostrare il nesso di causalità tra la cosa in custodia e il danno. Il custode, dal canto suo, ha l'onere della prova liberatoria del caso fortuito, indipendentemente dalla sua diligenza.
La Cassazione sottolinea inoltre che, più una situazione potenzialmente dannosa può essere prevista e prevenuta attraverso cautele normalmente attese, più l'efficienza causale del comportamento imprudente del danneggiato deve essere considerata nel contesto della responsabilità del danno. In tal senso, tale comportamento potrebbe interrompere il nesso causale tra il fatto e l'evento dannoso, quando tale comportamento, pur prevedibile in astratto, sia da escludere come eventualità ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale.
Sulla base di questi principi, la Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato. La ricorrente si muoveva infatti dall'erronea convinzione che fosse presente una presunzione di colpa del custode, il quale, per essere liberato da tale responsabilità, avrebbe dovuto dimostrare di aver fatto tutto il possibile per prevenire i danni derivanti dalla cosa custodita.
La responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. ha carattere oggettivo, e non presunto, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell'attore del nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l'onere della prova liberatoria del caso fortuito, senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode.
L'art. 2051 c.c., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l'evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n. 16034 del 07/06/2023
RILEVATO
che:
avvalendosi di due motivi, L.M. ricorre per la cassazione della sentenza del Tribunale di Roma n. 563/2022, resa pubblica in data 17 gennaio 2022;
resiste con controricorso Roma Capitale;
nessuna attività difensiva è svolta in questa sede da Do.ma.co. S.r.L. rimasta intimata;
L.M., asserendo di essere caduta rovinosamente a terra a causa di un avvallamento asseritamente provocato dal cedimento dell'asfalto dovuto ad uno scavo per interramento di tubature o al passaggio di un mezzo pesante, attesa la presenza in loco dell'impronta di uno pneumatico, conveniva in giudizio Roma Capitale per essere risarcita dei danni riportati nella caduta;
Roma Capitale, costituitasi, eccepiva preliminarmente la propria carenza di legittimazione passiva, contestando poi, nel merito, l'an debeatur, e chiedeva di essere autorizzata a chiamare in causa la ditta appaltatrice;
il Giudice di Pace, premesso che, al momento della caduta, il tempo era buono, che la visuale era libera e che l'avvallamento era di grandi dimensioni, riteneva che l'attrice si fosse trovata nelle condizioni di avvedersi e di evitare il presunto pericolo e che la P.A. non poteva essere considerata custode, ai sensi dell'art. 2051 c.c., dei beni demaniali su cui viene esercitato un uso ordinario, generale e diretto da parte dei cittadini quando il bene abbia un'estensione tale da rendere praticamente impossibile l'esercizio di un efficace e continuo controllo e che, per contro, sui privati gravasse l'onere di una particolare attenzione nell'uso degli stessi; aggiungeva che non era risultato provato che Roma Capitale e la Do.ma.co S.r.L. fossero state responsabili di avere omesso di preservare o rimuovere l'eventuale insidia; pertanto, rigettava la domanda dell'attrice;
il Tribunale di Roma, investito dell'appello da L.M., ha ritenuto che il danno dovesse ascriversi al comportamento negligente dell'appellante, essendo la caduta, date le condizioni di tempo e di luogo e la dimensione dell'avvallamento, evitabile con l'uso della ordinaria diligenza;
la trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell'art. 380 bis-1 c.p.c.;
il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni scritte;
entrambe le parti hanno depositato memoria.
CONSIDERATO
che:
1) con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione simultanea degli art. 116 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dell'art. 2051 c.c., ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4;
la tesi della ricorrente è che il Tribunale, non avendo accertato né le dimensioni della buca né se essa fosse coperta da fogliame o da cartacce, l'abbia erroneamente ritenuta avvistabile, percepibile ed evitabile e che, in aggiunta, non abbia tenuto conto, una volta dimostrata la pericolosità della cosa e il nesso di derivazione causale del danno dalla stessa, della "presunzione di colpevolezza incombente sul custode" e della necessità che quest'ultimo fornisse la prova liberatoria per andare esente dalla presunzione di colpa (p. 12);
2) con il secondo motivo la ricorrente censura la sentenza del Tribunale per violazione dell'art. 2051 c.c. e, in subordine, dell'art. 1227 c.c. nonché dell'art. 112 c.p.c., ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per avere il Tribunale omesso ogni indagine sulla prevenibilità/prevedibilità dell'evento da parte del custode e sull'eventuale abnorme/eccezionale utilizzo della cosa da parte della vittima, anche ai fini della richiesta applicazione dell'art. 1227 c.c.; di conseguenza, avrebbe snaturato la ratio dell'art. 2051 c.c. e in particolare la presunzione di colpevolezza del custode ed avrebbe reso una motivazione contraddittoria ed illogica tale da considerarsi nulla per aver posto a suo carico l'obbligo di evitare la situazione di pericolo;
il Tribunale, a detta della ricorrente, si sarebbe così discostato dalla giurisprudenza di questa Corte che, premessa la eterogeneità dei concetti di negligenza della vittima e di imprevedibilità della sua condotta da parte del custode, ritiene che la condotta negligente, distratta, imperita, imprudente della vittima del danno da cose in custodia non basta per superare la presunzione di colpa del custode, esclusa solo dal caso fortuito, il quale è un evento che pravideri non potest; sicché, in presenza di una cosa insidiosa, "il custode è sempre responsabile del danno cagionato al fruitore della res per via della presunzione iuris tantum ex art. 2051 c.c. sul medesimo incombente, tranne nelle ipotesi di imprevedibilità ed abnormità del comportamento del danneggiato";
3) i due motivi possono essere esaminati congiuntamente, perché entrambi pongono questione del se, per superare quella che (del tutto impropriamente, per quanto si dirà) la ricorrente definisce "la presunzione di colpa che l'art. 2051 c.c. pone a carico del custode", possa essere sufficiente il solo accertamento della condotta colposa della vittima; prima di procedere al loro scrutinio è opportuno premettere quanto segue:
3.1) nell'anno 2018 questa Sezione ha ritenuto indispensabile un intervento nomofilattico in tema di responsabilità per cose in custodia, consapevole delle disomogeneità interpretative riscontrate nella giurisprudenza di merito e delle incertezze ermeneutiche emerse nella sua stessa giurisprudenza; il tutto in una materia particolarmente rilevante per gli aspetti giuridici, sociali ed economici, coinvolgenti soggetti sia privati che pubblici;
3.2) nell'anno 2022 sono intervenute, poi, le Sezioni Unite di questa Corte, che, preso atto delle criticità e distonie emerse nella giurisprudenza di legittimità, hanno affermato i principi di diritto di cui a breve si dirà, apportando un definitivo contributo chiarificatore al tema della responsabilità della cosa in custodia;
alla luce di tali principi, non è ulteriormente discutibile che la responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. abbia natura oggettiva, come affermato da questa sezione con le decisioni nn. 2477-2483 rese pubbliche in data 1/02/2018, alla luce delle origini storiche della disposizione codicistica, dell'affermazione di fattispecie di responsabilità emancipate dal principio nessuna responsabilità senza colpa, dei criteri di accertamento del nesso causale e della esigibilità (da parte dei consociati) di un'attività di adeguamento della condotta in rapporto alle diverse contingenze nelle quali vengano a contatto con la cosa custodita da altri;
3.3) tale qualificazione ha ricevuto una definitiva conferma, come poc'anzi ricordato, dalle Sezioni Unite di questa Corte che, con la decisione n. 20943 del 30/06/2022, dopo aver diacronicamente ripercorso le tappe segnate (talvolta in modo dissonante) dalla giurisprudenza questa sezione, hanno ribadito che "La responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. ha carattere oggettivo, e non presunto, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell'attore del nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l'onere della prova liberatoria del caso fortuito, senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode";
3.4) all'affermazione di tale principio, di carattere generale (punto 9 della decisione), da ritenersi vincolante per la sezione semplice, ai sensi dell'art. 374 c.p.c., le Sezioni Unite hanno poi fatto seguire l'affermazione di ulteriori, altrettanto generali principi, così sintetizzabili (punti 8.4. e ss. della sentenza 20943/2022):
a) "l'art. 2051 c.c., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l'evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima";
b) "la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispecie dell'art. 2043 c.c., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di recare danno, a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l'evento dannoso";
c) "il caso fortuito, rappresentato da fatto naturale o del terzo, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; peraltro le modifiche improvvise della struttura della cosa incidono in rapporto alle condizioni di tempo e divengono, col trascorrere del tempo dall'accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere";
d) "il caso fortuito, rappresentato dalla condotta del danneggiato, è connotato dall'esclusiva efficienza causale nella produzione dell'evento; a tal fine, la condotta del danneggiato che entri in interazione con la cosa si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento dannoso, in applicazione anche ufficiosa dell'art. 1227 c.c., comma 1; e deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 Cost.;
e) quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte dello stesso danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando lo stesso comportamento, benché astrattamente prevedibile, sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale";
4) i principi appena evocati sanciscono in via definitiva l'attuale statuto della responsabilità del custode, il cui fondamento riposa, pertanto, su elementi di fatto individuati tanto in positivo - la dimostrazione che il danno è in nesso di derivazione causale con la cosa custodita (la sequenza è quella che muove dall'accertamento di un danno giuridicamente rilevante per risalire alla sussistenza di una relazione causale tra l'evento dannoso e la cosa custodita e si chiude con l'imputazione in capo al custode dell'obbligazione risarcitoria, dalla quale il custode si libera giusta il disposto dell'art. 2051 c.c., provando il caso fortuito) - quanto in negativo (l'impredicabilità di una mera presunzione di colpa in capo al custode e l'irrilevanza della prova di una sua condotta diligente);
4.1) nel confermare tali principi, in ossequio all'insegnamento delle Sezioni Unite, mette peraltro conto di precisare, sul piano della struttura della fattispecie (non su quello degli effetti, che risultano ormai definitivamente scolpiti dal massimo organo della nomofilachia), che il caso fortuito appartiene morfologicamente alla categoria dei fatti giuridici naturali e si pone in relazione causale diretta, immediata ed esclusiva con la res, senza intermediazione di alcun elemento soggettivo (dolo o colpa) in capo al custode; mentre la condotta del terzo e la condotta del danneggiato rilevano come fatti umani caratterizzati dalla colpa (art. 1227 c.c., comma 1), con rilevanza causale esclusiva o concorrente (sull'ammissibilità del concorso tra causa umana e causa naturale, sotto il profilo della sola causalità giuridica, cfr. Cass. 16/10/2007, n. 21619; Cass. 21/07/2011, n. 15991), intesa, nella specie, come caratterizzazione di una condotta oggettivamente imprevedibile ed oggettivamente imprevenibile' da parte del custode; di tal che, l'equiparazione fortuito-fatto umano può avvenire esclusivamente sul piano degli effetti, e non della relativa morfologia, volta che la riconducibilità dell'evento alla res, sul piano causale, non è naturalisticamente esclusa dal fatto umano (in assenza della cosa, non si sarebbe verificato il danno), bensì giuridicamente ricondotta al principio di cui all'art. 41 c.p., volta che quegli stessi comportamenti umani si pongano in termini di "cause sopravvenute che escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento" (art. 41 c.p., comma 2), in tal modo degradando il ruolo della res in custodia a mera occasione del danno;
4.1.1) in questi termini, va così ripetuto e precisato che sia il fatto naturale (fortuito) che la condotta umana (del terzo o del danneggiato) si pongono in relazione causale con l'evento di danno non nel senso della (impropriamente definita) "interruzione del nesso tra cosa e danno", bensì alla luce del principio penalistico che relega al rango di mera occasione la relazione con la res, deprivata della sua efficienza di causalità materiale (erroneamente confusa, talvolta, con la causalità naturale) senza peraltro cancellarne l'efficienza naturalistica; e ciò tanto nell'ipotesi di efficacia causale assorbente, quanto di causalità concorrente (sia del fortuito, sia delle condotte umane) poiché, senza la preesistenza e la specifica caratterizzazione della res, il danno non si sarebbe verificato;
4.2) il dato normativo va, pertanto, applicato governando la costruzione funzionale dell'illecito in parola, e raccordandola con la modulazione dei rimedi ad esso conseguenti, vale a dire tenendo conto che il sistema risarcitorio si fonda non solo sulla capacità preventiva della colpa (giustizia correttiva), ma anche sul soddisfacimento di esigenze meramente compensative (giustizia redistributiva, cioè il trasferimento del peso economico di un evento pregiudizievole dal danneggiato su chi abbia la signoria della cosa) e, non da ultimo, muovendosi con la consapevolezza che quello causale, essendo un "giudizio" non su di un fatto, ma su di una relazione tra fatti, utilizzato per allocare i costi del danno, deve essere calibrato in relazione alla specifica fattispecie di responsabilità; costituisce, difatti, il proprium della responsabilità civile il presentarsi "a geometria variabile, perché moltiplica le sue possibilità a seconda degli istituti con cui si fonde, facendo scattare principi anche solo lievemente diversi ma con implicazioni notevoli sulla allocazione finale dei costi, sulla prevenzione, sulla sostenibilità nel tempo della sua promessa (il risarcimento del danno)";
4.3) l'irrilevanza della colpa del custode, quale criterio per risalire al responsabile, è condizione necessaria ma non sufficiente per attribuire alla responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. natura oggettiva; essa fa giustizia di quei modelli di ragionamento che evocano la presunzione di colpa, la quale individua il fondamento della responsabilità pur sempre nel fatto dell'uomo - il custode - venuto meno al suo dovere di controllo e vigilanza affinché la cosa non abbia a produrre danno a terzi (Cass. 20/05/1998, n. 5031), ma non anche della teoria del riconoscimento - altrettanto erroneo - di una presunzione di responsabilità in capo al custode, giustificata ritenendo che, se la cosa fosse stata ben governata e controllata, non avrebbe arrecato alcun danno, mentre se il danno si verifica (fatto noto) si presume che ciò sia avvenuto perché la cosa non è stata adeguatamente custodita (fatto ignoto); da tale presunzione di responsabilità - secondo tale, a sua volta non condivisibile ricostruzione della fattispecie - il custode si libererebbe dimostrando, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce, che il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso;
4.4) ritenere che sul custode gravi una presunzione di responsabilità - esclusa espressamente, come si è detto, anche dalla già ricordata pronuncia delle Sezioni Unite - è indice di una resistenza ad emanciparsi dal criterio della colpa che, infatti, viene evocata in via surrettizia non per fondare, in via di regola, la responsabilità del custode, ma (comunque) per escluderla, del tutto impropriamente, in via di eccezione; la capacità di vigilare la cosa, di mantenerne il controllo, di neutralizzarne le potenzialità dannose, difatti, non è elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità, bensì elemento estrinseco del quale va tenuto conto alla stregua di canone interpretativo della ratio legis, cioè come strumento di spiegazione di "un effetto giuridico che sta a prescindere da essi"; l'intento di responsabilizzare il custode della res o di controbilanciare la signoria di fatto concessagli dall'ordinamento affinché ne tragga o possa trarne beneficio sulla cosa con l'obbligazione risarcitoria (Cass. 01/02/2018, n. 2480, pp. 11 e 12) possono essere criteri di spiegazione del criterio scelto per allocare il danno, ma non sono elementi costitutivi della regola di fattispecie né elementi di cui tener conto per escludere l'obbligazione risarcitoria in capo al custode;
5) non è stata fornita una definizione normativa della custodia da parte del legislatore del 1942 perché l'art. 2051 c.c. si è limitato a tradurre l'espressione francese sous sa garde che appariva nell'art. 1384, comma 1, Code Napoleon. Questa Corte (Cass., Sez. Un., 11/11/1991, n. 12019) ha, tuttavia, avuto già occasione di rilevare le diverse accezioni della portata della custodia come criterio di determinazione della responsabilità rinvenienti dalle fonti romane e ha ritenuto di poterle raggruppare nelle seguenti categorie: a) quella che si riallaccia alla configurazione giustinianea per cui la custodia non è che un particolare tipo di diligentia; b) quella custodiendae rei, la quale rimane un criterio soggettivo di responsabilità; c) quella più recente che individua il concetto di custodia nella responsabilità oggettiva; a quest'ultima, che "si concretizza in un criterio oggettivo di responsabilità, intendendo per tale quello che addossa a colui che ha la custodia della cosa la responsabilità per determinati eventi, indipendentemente dalla ricerca di un nesso causale fra il comportamento del custode e l'evento", ha ricondotto quella rilevante ai sensi dell'art. 2051 c.c.;
6) non può mettersi in dubbio che, per individuare il responsabile, non debba farsi riferimento alla sola custodia di fonte contrattuale (Cass. 18/02/2000, n. 1859; Cass. 20/10/2005, n. 20317), siccome l'art. 2051 c.c. attiene ai rapporti con i terzi danneggiati dalla cosa oggetto di custodia, né possono nutrirsi riserve circa il fatto che, trattandosi di una relazione meramente fattuale, non sia giustificato un mero rinvio ad altri istituti come la proprietà, i diritti reali minori, il possesso, la semplice detenzione; la relazione giuridica con la cosa non è elemento costitutivo della responsabilità, a differenza di quanto previsto dagli artt. 2052,2053,2054 c.c., sicché responsabile ex art. 2051 c.c. può ben essere un soggetto diverso da quello che abbia un titolo giuridico sulla res (Cass. 6/07/2006, n. 153684), atteso che rileva esclusivamente la relazione di fatto di natura custodiale, a prescindere finanche dal se essa sia titolata; l'applicazione dell'art. 2051 c.c. si arresta soltanto dinanzi alle cose insuscettibili di custodia in termini oggettivi (acqua, aria: Cass. 20/02/2006, n. 3651);
7) l'indeterminatezza della nozione di caso fortuito, talvolta declinato in termini di polivalenza, consentirebbe, in astratto di considerarlo tanto come limite della responsabilità per colpa quanto come limite della causa di imputazione della responsabilità; nondimeno, quando il caso fortuito è evocato espressamente da una norma, come in questo caso, la sua nozione deve essere riempita di contenuto in correlazione con il contesto e con la ratio legis; per quanto non decisivo, orienta in tal senso anche il tenore letterale dell'art. 2051 c.c. ("Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito") se confrontato con quello dell'art. 2050 c.c. ("Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un'attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno"), dell'art. 2053 c.c. ("Il proprietario di un edificio o di altra costruzione è responsabile dei danni cagionati dalla loro rovina, salvo che provi che questa non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione"), e dell'art. 2054 c.c. ("Il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno");
7.1) il contenuto della prova liberatoria non solo è stato tipizzato dal legislatore, ma è stato differenziato secondo la regola di fattispecie di volta in volta presa in considerazione; quando la prova liberatoria è costituita dalla ricorrenza del caso fortuito (cfr. anche l'art. 2052 c.c. "Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall'animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito") è segno che il legislatore non ha voluto che il custode (o il responsabile di cui all'art. 2052 c.c.) possa liberarsi provando di avere tenuto un comportamento diligente volto ad evitare il danno né con la dimostrazione che il danno si sarebbe verificato nonostante la diligenza da lui esigibile, data l'imprevedibilità e l'inevitabilità dell'evento dannoso, tantomeno con la prova che l'intervento del caso fortuito abbia reso oggettivamente impossibile la custodia (utili indicazioni a supporto, ma con carattere di minore prossimità, possono trarsi anche dalle ipotesi in cui il legislatore non ha previsto la prova liberatoria, come nelle ipotesi di cui all'art. 2049 c.c. e all'art. 114 cod. consumo);
8) facendo applicazione di questi principi alla fattispecie per cui è causa, il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato, in quanto la ricorrente muove dal convincimento, erroneo per quanto sinora esposto, che a carico del custode il c.c. ponga una presunzione di colpa, per vincere la quale il custode stesso debba dimostrare di aver fatto tutto il possibile per prevenire i danni derivanti dalla cosa;
8.1) deve ribadirsi che si può ben dire che il responsabile deve essere individuato in colui che ha creato il rischio o il pericolo o che non ha impedito il verificarsi del danno o situazioni assimilabili, ma muovendo dall'assunto (come condivisibilmente osservato in dottrina) che il soggetto non viene condannato al risarcimento del danno "perché il fatto che gli viene imputato significhi inottemperanza a un dovere di prevenzione bensì perché il danno si è verificato nei termini in cui la norma esige che si verifichi per il sorgere dell'obbligazione. Il rischio, la creazione di pericolo, in capo a colui che la norma eventualmente trasceglie tra coloro ai quali il costo del danno può essere riferito possono spiegare all'interprete la ratio della norma, ma non gli chiedono di scegliere, all'interno del ventaglio di teoria generale della responsabilità civile, tra prevenzione, riparazione, distribuzione del costo del danno, punizione, perché tale scelta è stata fatta dal legislatore";
8.2) in sostanza, il riferimento al rischio, al pericolo, all'incapacità del custode di prevenire il danno serve solo per giudicare se si siano concretizzati gli elementi di fatto che integrano, dal punto di vista fenomenologico, il criterio di imputazione dell'obbligazione risarcitoria, tenendo bene a mente, peraltro, che la cosa non ha un rilievo autonomo nella produzione del danno, ma lo assume solo perché custodita;
8.3) pertanto, il giudice a quo ha correttamente ritenuto non predicabile alcuna responsabilità della P.A. per il danno derivante dalla caduta dell'odierna ricorrente, individuando - con accertamento di fatto insindacabile in questa sede - nella sua colpevole inavvedutezza comportamentale la causa esclusiva dello stesso; comportamento che ha fatto sì che la cosa - l'avvallamento del manto stradale - non fosse da considerare la causa dell'evento dannoso, ma l'occasione del suo verificarsi; in altri termini, la caduta non è stata cagionata dalla cosa, se non sul piano naturalistico, ma dal comportamento imprudente della vittima che deve imputare a se stessa le conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla sua condotta;
9) va ulteriormente osservato che non ricorrono, nella specie, i presupposti per denunciare la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., né per sostenere fondatamente che la Corte sia incorsa nel vizio di motivazione attribuitole: pur essendo stata rimessa al vaglio delle sezioni unite, con ordinanza interlocutoria (Cass. 27/04/2023, n. 11111), la delicata questione del travisamento oggettivo della prova, la ricorrente si limita a lamentare soltanto l'esito dell'attività valutativa del giudicante, e deduce che non era stato contestato che il marciapiede presentasse l'avvallamento causa della sua caduta (circostanza di fatto del tutto irrilevante, ai fini della corretta motivazione adottata dalla Corte di appello);
6) il ricorso va, dunque, rigettato;
7) le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo;
8) si dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per porre a carico della ricorrente l'obbligo del pagamento del doppio contributo unificato, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 2.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Sezione Terza civile della Corte Suprema di Cassazione, il 23 maggio 2023.
Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2023.
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