Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.15859 del 12/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. coest. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero 24537 del ruolo generale dell’anno 2016, proposto da:

D.G.M.L. (C.F.: *****) rappresentata e difesa, giusta procura allegata al ricorso, dall’avvocato Carmelita Rizza (C.F.: RZZ CML 78B51 D122X);

– ricorrente –

nei confronti di:

F.G. (C.F.: *****) rappresentato e difeso, giusta procura in calce al controricorso, dagli avvocati Giorgio Melucco (C.F.: MLC GRG 30S24 H501A) e Federica Melucco (C.F.: MLC FRC 65L53 H501B);

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Roma n. 1895/2016, pubblicata in data 21 marzo 2016;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data 18 aprile 2019 dal consigliere Augusto Tatangelo;

uditi:

il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. Pepe Alessandro, che ha concluso per la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite o, in subordine, per il rigetto dello stesso;

l’avvocato Carmelita Rizza, per la ricorrente;

gli avvocati Giorgio e Federica Melucco, per il controricorrente.

FATTI DI CAUSA

All’esito del procedimento penale instaurato nei confronti del medico F.G., imputato del delitto di omicidio colposo di D.G.F., il sanitario venne assolto in primo grado, con formula “per non aver commesso il fatto”, ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2.

La Corte di Appello di Roma, investita del gravame della sola parte civile, D.G.M.L., ritenne il F. civilmente responsabile dell’evento mortale contestatogli, condannandolo al risarcimento del danno in favore dell’appellante, da liquidarsi in separata sede.

La sentenza è stata cassata (Cass. penale, sez. IV, sentenza n. 45920 del primo dicembre 2009), con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, ai sensi dell’art. 622 c.p.p..

La Corte di Appello di Roma, all’esito del giudizio di rinvio, ha confermato, anche ai fini civili, l’insussistenza della responsabilità del F. per il reato di omicidio colposo.

Ricorre la D.G., sulla base di sei motivi.

Resiste con controricorso il F..

Il ricorso è stato inizialmente trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380-bis.1 c.p.c.; successivamente ne è stata disposta la trattazione in pubblica udienza.

Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative (la D.G. ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., in vista dell’adunanza camerale dell’11 giugno 2018, il F. ai sensi dell’art. 378 c.p.c., in vista della pubblica udienza del 18 aprile 2019).

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (e, se del caso, n. 3), violazione dell’art. 627 c.p.p., comma 3 e/o dell’art. 384 c.p.c., comma 2, sotto il profilo della violazione dell’obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi a quanto statuito dalla Corte Suprema, IV Sez. Pen., nella sentenza n. 45920/2009 e, in ogni caso, violazione e/o falsa applicazione dei principi enunciati da nella predetta sentenza n. 45920/2009; nonchè violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. in tema di accertamento del nesso di causalità nella responsabilità medica con conseguente violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1173 c.c., e degli artt. 40 e 41 c.p., nella parte in cui la Corte d’Appello di Roma ha ritenuto non potersi attingere, nel caso concreto, al livello di probabilità logica richiesto nel giudizio penale per affermare il nesso eziologico tra la condotta omissiva del Dott. F. e l’evento lesivo lamentato dalla parte civile in presenza delle conclusioni dei periti d’ufficio rese nella relazione depositata nel primo grado di giudizio”.

La ricorrente deduce che la cassazione della sentenza della Corte di appello di Roma era stata pronunciata per difetto di motivazione, e non per violazione di legge, in ordine al criterio da applicare per l’accertamento del nesso di causalità, e che quindi il giudice territoriale avrebbe dovuto compierne nuovamente l’accertamento di fatto, non modificare il criterio giuridico applicato. Tale accertamento risultava, di converso, del tutto omesso, essendo stato erroneamente applicato il criterio penalistico della causalità, senza effettivamente valutarne in concreto l’esistenza.

2. Con il secondo motivo si denunzia “Ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4: violazione e/o falsa applicazione degli artt. 74 ss. e 576 c.o.p. e dell’art. 185 c.p., con particolare riferimento alla pronuncia penale di proscioglimento ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2, e violazione dell’art. 112 c.p.c. sotto il profilo della violazione del divieto di non liquet, nella parte in cui la Corte d’Appello di Roma ha negato il diritto della parte civile di ottenere una pronuncia di accertamento incidentale della responsabilità del danneggiante anche in (ipotetica) assenza di elementi valevoli a raggiungere la “certezza processuale” che consente di pervenire alla sua condanna penale”.

Afferma parte ricorrente che il principio per cui, in caso di cassazione su ricorso della parte civile della sentenza di assoluzione in tema di responsabilità medica per reato omissivo improprio, nel conseguente giudizio civile l’accertamento del nesso causale tra la condotta omessa e l’evento verificatosi andrebbe svolto facendo applicazione della regola di giudizio propria del giudizio penale, troverebbe applicazione solo in caso di assoluzione con formula piena, ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 1, ma non in caso di assoluzione con formula dubitativa, ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2.

3. Con il terzo motivo si denunzia “Ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione del combinato disposto degli artt. 356 e 196-197 c.p.c., anche in relazione all’art. 359 c.p.c., e dei principi generali, espressi dal codice di rito in materia di atti processuali nell’art. 162 c.p.c., comma 1, nonchè nell’art. 159 c.p.c., comma 3, ed estensibili agli atti di istruzione della causa – che prevedono il dovere procedurale del giudice di conservare l’attività processuale svolta e di disporre provvidenze sananti e, ove possibile, la rinnovazione di atti nulli; conseguente nullità della statuizione della sentenza impugnata nella parte in cui ritiene “inutilizzabile” la CTU disposta in sede di rinvio”.

La ricorrente deduce che la CdA non avrebbe potuto ritenere sic et simpliciter inutilizzabile la CTU eseguita nel giudizio di rinvio, ma avrebbe avuto l’obbligo di chiedere chiarimenti all’ausiliario, ovvero di rinnovarla, per sanarne gli eventuali vizi.

4. Con il quarto motivo si denunzia “Ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 116 c.p.c. e del principio del “prudente” apprezzamento del giudice in relazione alla pretermissione completa, da parte del Giudice di merito, della conclusione del CTU secondo cui “la condotta del Dott. F. può essere ritenuta causalmente ricollegabile più probabilmente che non al decesso del sig. D.G.”; nonchè violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c.relativamente all’assolvimento dell’obbligo, da parte del Giudice, di esporre le ragioni di fatto e di diritto della decisione laddove la Corte d’Appello di Roma ha fornito una motivazione del tutto apparente rispetto alla negazione del valore di quanto affermato dal CTU”.

La ricorrente sostiene che le conclusioni della CTU disposta in sede di giudizio di rinvio sarebbero state immotivatamente disattese dalla CdA; che l’affermazione della sussistenza del nesso di causa in base al criterio del “più probabile che non” non esclude logicamente una probabilità vicina alla certezza; che il giudice del rinvio avrebbe potuto e dovuto ritenere sussistente tale nesso, risultando, sul punto, la motivazione meramente apparente.

5. Con il quinto motivo si denunzia “Ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, ovvero dell’art. 627 c.p.p., comma 3 sotto il profilo della violazione dell’obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi a quanto statuito dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 45920/2009 in sede di accoglimento della censura relativa al vizio di motivazione, con riguardo all’affermata necessità di effettuare l’accertamento del nesso di causalità nella fattispecie omissiva oggetto del procedimento facendo ricorso ai “dati statistici””.

La ricorrente sostiene che la CdA avrebbe violato il vincolo derivante dalla decisione della Cassazione penale, ritenendo inutilizzabile la CTU effettuata nel giudizio di rinvio in quanto formulata in astratto in base a dati statistici e non con riguardo alla concreta fattispecie, e ciò in quanto la stessa Corte di Cassazione aveva fatto riferimento alla necessità di tener conto dei dati statistici.

6. Con il sesto motivo si denunzia “Ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4: violazione dell’art. 393 c.p.c. come affermativo dell’effetto sostitutivo della pronuncia resa dal giudice di appello, nella specie resa dalla Corte d’Appello Penale n. 3620/2006 sull’appello proposto dalla sig.ra D.G. ai sensi dell’art. 576 c.p.c. sulla sola azione civile. Mancata applicazione della regola secondo cui dopo la pronuncia del giudice di appello ed il suo successivo annullamento in Cassazione, non è senz’altro possibile la reviviscenza della sentenza resa in primo grado oggetto della riforma del giudice d’appello”.

La ricorrente deduce che il dispositivo della sentenza impugnata (rigetto dell’appello) non sarebbe corretto in quanto, dopo la cassazione della sentenza penale di appello che ha riformato quella di primo grado, quest’ultima sentenza non rivive; il giudice territoriale non avrebbe dovuto valutare, pertanto, se fosse o meno conforme a diritto la sentenza di primo grado, ma compiere nuovamente l’accertamento della sussistenza del nesso di causa, e quindi della responsabilità civile dell’imputato.

7. Osserva il collegio che il ricorso pone preliminarmente la questione dell’efficacia del principio di diritto posto dalla Cassazione penale in tema di regole, processuali e probatorie, da applicarsi in seno al giudizio celebratosi dinanzi alla Corte di appello civile, competente per valore, in sede di rinvio, ai sensi dell’art. 622 c.p.p..

7.1. Con nota del Presidente titolare della Terza sezione civile del 23.10.2018, è stata richiesta all’ufficio del Massimario di questa Corte una relazione illustrativa sulla questione, di rilevanza nomofilattica, afferente alla disciplina, processuale e probatoria, applicabile nel giudizio di rinvio innanzi alla Corte d’appello civile a seguito di annullamento disposto dalla Corte di cassazione penale ai soli effetti civili ai sensi dell’art. 622 c.p.p., con specifico riferimento:

all’integrale applicabilità, o meno, della disciplina di cui agli artt. 392 e ss. c.p.c.;

– alla eventuale ineludibilità del vincolo posto al giudice civile dalla sentenza della Corte di cassazione penale in ordine ai criteri processuali e probatori applicabili, così come indicati nella sentenza rescindente, anche a prescindere dalla relativa conformità a diritto;

– in particolare, all’individuazione del criterio (civilistico, del “più probabile che non”, enunciato dalle Sezioni unite civili di questa Corte, ovvero penalistico, dell'”alto grado di probabilità logica e di credenza razionale” affermato dalle Sezioni unite penali) applicabile, nel giudizio civile di rinvio, quanto alla valutazione della sussistenza o meno del nesso causale tra condotta ed evento di danno.

7.2. La complessa questione di diritto deve essere scrutinata alla luce del principio, affermato in alcune recenti pronunce della quarta sezione penale di questa Corte (tra le altre, Cass. 10 febbraio 2015, n. 11193, Cortesi; 4 febbraio 2016, n. 27045, Di Flaviano), con le quali, in casi di annullamento agli effetti civili di sentenze di assoluzione con rinvio al giudice civile ai sensi dell’art. 622 c.p.p., si è opinato che, nel successivo giudizio di rinvio, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità tra la condotta dell’imputato-danneggiante e l’evento di danno, il giudice civile sarebbe tenuto ad applicare le regole di giudizio del diritto penale – e, quindi, il criterio dell'”elevato grado di credibilità razionale” enunciato dalla Sentenza Franzese (Cass. ss.uu. n. 30328 del 2002) – e non la diversa regola della cd. “probabilità relativa”, ormai consolidatosi nella giurisprudenza civile di questa Corte (ed ulteriormente divaricatosi da quella penalistica per effetto della differenziata disciplina introdotta dal cd. “decreto Balduzzi” del 2012 e dalla successiva L. n. 24 del 2017): ciò in quanto l’azione civile esercitata nel processo penale non sarebbe altro che “quella per il risarcimento del danno, patrimoniale o non, cagionato dal reato, ai sensi dell’art. 185 c.p. e art. 74 c.p.p.”.

7.3. Un opposto principio verrà invece affermato in una recente pronuncia di questa stessa sezione, che ha rigettato il ricorso per cassazione proposto avverso una sentenza di condanna al risarcimento dei danno pronunciata in sede di rinvio ex art. 622 c.p.p.: “in materia di rapporti tra processo penale e civile, la sentenza di proscioglimento dell’imputato per intervenuta prescrizione del reato, passata in giudicato, non esplica alcuna efficacia vincolante nel giudizio civile di danno, anche quando lo stesso si svolga nelle forme del giudizio di rinvio conseguente a quello penale, ex art. 622 c.p.p., giacchè rispetto ad esso – sebbene regolato dagli artt. 392-394 c.p.c. – non è ipotizzabile un vincolo paragonabile a quello derivante dall’enunciazione del principio di diritto ex art. 384 c.p.c., comma 2” (Cass. sez. III, 12 aprile 2017, n. 9358).

7.3.1. In motivazione, con specifico riferimento alla censurata violazione dei limiti fissati dalla legge al giudizio di rinvio (nel caso di specie, la Corte di cassazione penale, in sede di annullamento di una sentenza di condanna contenente anche statuizioni civili per la mancata applicazione nella sentenza impugnata dei criteri affermati dalle Sezioni unite Franzese in tema di nesso causale, aveva rilevato la prescrizione del reato e conseguentemente disposto il rinvio ai soli effetti civili al giudice civile in grado d’appello ai sensi dell’art. 622 c.p.p.) si legge ancora che, “riassunto il processo nella sede civile, il giudice di rinvio non era affatto vincolato, nella ricostruzione del fatto, a quanto accertato dal giudice penale (…) E’ vero che, tecnicamente, il giudizio di rinvio è regolato dagli artt. 392 – 394 c.p.c., ma è altrettanto evidente che non è per questo in alcun modo ipotizzabile un vincolo come quello che consegue all’enunciazione di un principio di diritto ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, da parte di questa Corte”: con conseguente libertà del giudice civile “nella ricostruzione dei fatti e nella loro valutazione”, e conseguente, legittima applicazione del criterio civilistico del “più probabile che non” nella valutazione del nesso causale, in luogo di quello tipico del processo penale dell’alta probabilità logica.

7.4. Il collegio intende dare continuità a tale, più recente orientamento, alla luce delle considerazioni che seguono.

8. La disciplina dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale ha subito radicali trasformazioni nel passaggio dal codice di procedura penale del 1930 a quello del 1988, ispirati a principi profondamente diversi: mentre, nel precedente sistema inquisitorio, essa appariva improntata al principio della unitarietà della funzione giurisdizionale – e quindi del primato della giurisdizione penale e della sua pregiudizialità – nel novellato ordinamento processuale, ispirato al sistema accusatorio, si afferma il diverso principio della parità dei diversi ordini giurisdizionali e della sostanziale autonomia e separazione dei relativi giudizi.

8.1. Va premesso, in proposito, che il diritto del danneggiato di introdurre l’azione risarcitoria nel processo penale non è oggetto di garanzia costituzionale, giacchè l’art. 24 Cost., comma 1, assicurando la possibilità di agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, “non eleva a regola costituzionale quella del simultaneus processus, ma lascia al legislatore ordinario ampia discrezionalità quanto ai tempi e alle modalità di tale azione” (Corte Cost. n. 98 del 1996). Peraltro, con riguardo alla diversa questione della compatibilità dell’esperimento dell’azione civile nel processo penale (che introduce un nuovo thema decidendum e rende necessari ulteriori adempimenti processuali) con la ragionevole durata del processo (prescritta dall’art. 6 CEDU e art. 111 Cost., comma 2) è stato opportunamente osservato, in dottrina, che, per un verso, alla luce della cronica lentezza del processo civile, il regime del cumulo potrebbe meglio assicurare la ragionevole durata, e che, dall’altro, sebbene l’esercizio dell’azione civile in seno al processo penale possa comportarne un appesantimento, è altrettanto vero che, ragionando in termini di economia non del processo ma dei processi, il concentrare in un’unica sede l’esame dei risvolti penalistici e di quelli civilistici di uno stesso fatto appare invece un fattore di snellimento.

8.1.1. Il nuovo codice di procedura penale – pur disattendendo la proposta di escludere tout court dal processo la possibilità di costituzione della parte civile, in quanto istituto storicamente coerente con sistemi processuali di tipo inquisitorio – ha previsto un assetto dell’azione civile nel processo penale profondamente diverso da quello del codice previgente, ispirandosi al principio della parità ed originarietà dei diversi ordini giurisdizionali e della separazione e dell’autonomia dei giudizio civile rispetto a quello penale, eliminando la pregiudizialità necessaria del processo penale rispetto a quello civile di danno e ridimensionando notevolmente gli effetti della sentenza penale irrevocabile nel processo civile in cui venga proposta la domanda di risarcimento.

8.1.2. L’art. 75, al comma 2, prevede, difatti, l’assoluta autonomia dell’azione civile rispetto al parallelo processo penale: venuta meno la sospensione necessaria del processo civile fino alla pronuncia della sentenza penale irrevocabile, l’azione civile proposta innanzi al giudice civile prosegue in tale sede ove non venga trasferita nel processo penale alle condizioni previste dall’art. 75, comma 1, c.p.p., e vengono distinti il ruolo della persona offesa dal reato – portatore di un interesse penale finalizzato alla repressione del fatto criminoso – e quello del danneggiato dal reato che, costituendosi parte civile, mira soltanto al risarcimento dei danni cagionati dal reato (in argomento, di recente, nel senso di un’interpretazione fortemente restrittiva della portata della norma, Cass. S.U. n. 13661 del 2019).

8.2. Pur mantenendo intatta la possibilità della costituzione di parte civile, il codice del 1988 incentiva, nella sostanza, l’esercizio dell’azione civile nella sede sua propria, prevedendo, in tal caso, che, ove il processo penale si concluda con una sentenza irrevocabile di condanna, tale sentenza abbia efficacia di giudicato nel giudizio civile quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso (art. 651 c.p.p.) 8.3. Viene invece esclusa un’analoga efficacia della sentenza irrevocabile di assoluzione, la quale – grazie alla “clausola di salvaguardia” contenuta nella parte finale dell’art. 652 c.p.p., comma 1, – non produce effetti nel giudizio civile ove l’azione civile sia stata proposta davanti al giudice civile prima della sentenza penale di primo grado, e non sia stata trasferita nel processo penale.

8.4. Ai sensi dell’art. 652 c.p.p., l’efficacia di giudicato nel giudizio civile di danno della sentenza irrevocabile di assoluzione è poi limitata all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, e si esplica solo nei confronti del danneggiato che si sia costituito o sia stato posto in condizioni di costituirsi parte civile, e non abbia esercitato l’azione civile in sede propria ai sensi dell’art. 75 c.p.p., comma 2.

8.4.1. E’ stato affermato, in proposito, che l’art. 652 c.p.p. trova comunque applicazione nel solo caso di giudizio autonomamente instaurato innanzi al giudice civile, dal primo grado, e non anche nel caso di annullamento con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello ai sensi dell’art. 622 c.p.p.: in quest’ultimo caso, infatti, la sentenza di assoluzione dell’imputato, annullata su ricorso della parte civile, pur restando ferma agli effetti penali, non produce effetti extrapenali (Cass. 24 novembre 1998, n. 11897). In proposito, secondo l’insegnamento di una pressochè unanime dottrina, nei casi in cui sia prevista l’efficacia extrapenale della sentenza penale irrevocabile ove non debba aver luogo la sospensione del processo civile, si afferma che la sentenza penale avrà efficacia nel giudizio civile soltanto ove il giudicato penale si formi in tempo utile per essere fatto valere in sede civile (con la conseguenza che, nel caso opposto, potrà solo utilizzarsi, ricorrendone i presupposti, il rimedio della revocazione di cui all’art. 395 c.p.c.).

8.5. Il codice di procedura penale del 1988, infine, all’art. 538, comma 1, ha continuato a collegare (nonostante le contrarie proposte avanzate in sede di progetto preliminare) in via esclusiva la decisione sulla domanda della parte civile alla condanna dell’imputato (“… quando pronuncia sentenza di condanna, il giudice decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, proposta a norma degli artt. 74 e seguenti”).

8.5.1. La condanna penale è, pertanto, l’indispensabile presupposto dell’accoglimento dell’azione civile: e il collegamento stabilito dall’art. 538 c.p.p. tra la decisione sulle questioni civili e la condanna dell’imputato – che riflette il carattere accessorio e subordinato dell’azione civile proposta nel processo penale rispetto agli obiettivi propri dell’azione penale, che si focalizzano sull’accertamento della responsabilità ex delicto dell’imputato – è stato ritenuto (Corte Cost. n. 12 del 2016) non in contrasto con gli artt. 3,24 e 111 Cost., volta che “l’impossibilità di ottenere una decisione sulla domanda risarcitoria, laddove il processo penale si concluda con una sentenza di proscioglimento per qualunque causa (salvo che nei limitati casi previsti dall’art. 578 c.p.p.) costituisce uno degli elementi di cui il danneggiato deve tener conto nel quadro della valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi delle due alternative che gli sono offerte”. In tale occasione, la Consulta ha avuto altresì occasione di affermare la compatibilità di tale assetto con il principio di ragionevole durata del processo, in quanto “la preclusione della decisione sulle questioni civili, nel caso di proscioglimento dell’imputato per qualsiasi causa compreso il vizio totale di mente – se pure procrastina la pronuncia definitiva sulla domanda risarcitoria del danneggiato, costringendolo ad instaurare un autonomo giudizio civile, trova però giustificazione nel carattere accessorio e subordinato dell’azione civile proposta nell’ambito del processo penale rispetto alle finalità di quest’ultimo, e segnatamente nel preminente interesse pubblico (e dello stesso imputato) alla sollecita definizione del processo penale che non si concluda con un accertamento di responsabilità, riportando nella sede naturale le istanze di natura civile fatte valere nei suoi confronti. Ciò, in linea, una volta ancora, con il favore per la separazione dei giudizi cui è ispirato il vigente sistema processuale”.

8.6. Di sicuro rilievo appare anche l’affermata compatibilità del sistema nazionale con l’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 25 ottobre 2012, n. 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, e stabilisce l’obbligo degli Stati membri di garantire alla vittima “il diritto di ottenere una decisione in merito al risarcimento da parte dell’autore del reato nell’ambito del procedimento penale entro un ragionevole lasso di tempo”, trattandosi di obbligo “espressamente subordinato alla condizione che “il diritto nazionale (non) preveda che tale decisione sia adottata nell’ambito di un altro procedimento giudiziario”. Il che è proprio quanto si verifica, secondo l’ordinamento italiano, nell’ipotesi in esame”.

8.7. Tuttavia, con la sentenza penale di condanna, la domanda civile non necessariamente deve essere accolta, in quanto, ove il giudice ritenga non sussistere il danno dedotto (ovvero che tale danno non sia connesso al reato), egli rigetterà la domanda di parte civile: l’art. 538 c.p.p., comma 1, prevede, difatti, che, quando pronuncia sentenza di condanna, il giudice “decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno”, con disposizione innovativa rispetto al vecchio codice. In tal caso, la sentenza di condanna penale, pronunciando altresì sull’azione civile, ha efficacia preclusiva di un nuovo giudizio in sede sua propria – a meno che, nel successivo e autonomo giudizio civile, il danneggiato già costituitosi parte civile non faccia valere diverse e distinte ragioni di danno, ovvero rappresenti un petitum diverso da quello originario.

8.8. In caso di sentenza penale di assoluzione o di non doversi procedere, invece, il giudice non si pronuncia sull’azione civile, la quale potrà essere comunque riproposta nella sede sua propria, in quanto, a differenza che nel codice abrogato, il codice vigente non prevede formule di proscioglimento preclusive alla sua riproposizione, ma soltanto accertamenti ostativi, se fatti valere in sede civile, all’accoglimento del merito della domanda di chi si pretende danneggiato dal reato. L’art. 652 c.p.p., infatti, a differenza dell’art. 25 codice abrogato, non prevede, in caso di sentenza dibattimentale di assoluzione, il divieto di riproporre l’azione civile in sede propria, ma soltanto l’efficacia di giudicato, nel giudizio civile di danno, di taluni accertamenti contenuti nella sentenza irrevocabile di assoluzione nei confronti di chi sia costituito o sia stato posto in grado di costituirsi parte civile, e non abbia esercitato l’azione civile ai sensi dell’art. 75 c.p.p., comma 2, cioè ab initio nella sede propria.

8.9. Il codice di rito penale introduce, peraltro, una disposizione di carattere eccezionale (così, Cass. sez. un. 29 settembre 2016, n. 46688, Schirru) rispetto alla regola secondo cui il giudice penale non si pronuncia sull’azione civile in caso di sentenza di proscioglimento – contenuta nell’art. 578 cod. proc. civ., a mente della quale, se è stata pronunciata condanna, anche generica, dell’imputato alle restituzioni o al risarcimento dei danni a favore della parte civile, il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare estinto il reato per amnistia o per prescrizione, decidono comunque sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili. La norma, ispirata ad esigenze di economia processuale (cioè quella di evitare che il giudizio sulle restituzioni o il risarcimento debba ricominciare da capo davanti al giudice civile quando nel processo penale, nel grado precedente, si sia ritenuta la sussistenza del reato e della responsabilità civile) prevede quindi un caso in cui, con la sentenza di proscioglimento (di non doversi procedere per estinzione del reato) il giudice penale si pronuncia anche sull’azione civile, confermando o revocando le statuizioni civili contenute nella sentenza impugnata.

8.10. Si deve ancora rammentare come il codice del 1988 riconosca, all’art. 576, a differenza del codice abrogato, il potere della parte civile di impugnare (e quindi anche appellare) le sentenze di proscioglimento (e ciò anche dopo le modificazioni introdotte dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 6:Corte Cost. n. 32 del 2007 e n. 3 del 2008; Cass. sez. un. 29 marzo 2007, n. 27614, Poggiali). Le Sezioni unite penali (Cass. Sez. un. 11 luglio 2006 n. 25083, Negri) hanno ritenuto, in proposito, che l’art. 576 c.p.p. conferisca al giudice dell’impugnazione il potere di decidere sulla domanda al risarcimento e alle restituzioni pur in mancanza di una precedente statuizione sul punto, in quanto “il giudice dell’impugnazione ha, nei limiti del devoluto e agli effetti della devoluzione, i poteri che il giudice di primo grado avrebbe dovuto esercitare. Se si convince che tale giudice ha sbagliato nell’assolvere l’imputato, ben può affermare la responsabilità di costui agli effetti civili e (come indirettamente conferma il disposto di cui all’art. 622 c.p.p.) condannarlo al risarcimento e alle restituzioni, in quanto l’accertamento incidentale equivale virtualmente – oggi per allora – alla condanna di cui all’art. 538 c.p.p., comma 1, che non venne pronunciata per errore”; con la conseguenza che, ove l’impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento sia stata proposta anche agli effetti penali, la Corte d’appello che dichiara l’estinzione del reato per prescrizione o amnistia può condannare l’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile impugnante agli effetti civili.

8.11. Pertanto, il principio secondo cui lo stesso giudice penale può pronunciarsi sulla domanda risarcitoria o restitutoria solo in quanto contestualmente giudichi e accerti la sussistenza della responsabilità penale, alla quale consegue la statuizione sulla responsabilità civile, subisce (nonostante il contrario avviso di una dottrina e di una giurisprudenza minoritaria) una importante eccezione nel caso di accoglimento dell’impugnazione proposta dalla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento, ai sensi dell’art. 576 c.p.p..

8.12. Va ancora ricordato come l’art. 573 c.p.p. preveda che “l’impugnazione per i soli effetti civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale”, e ciò anche se con essa non concorra alcuna impugnazione agli effetti penali: proprio in ordine alle regole di giudizio cui deve attenersi il giudice in presenza di un appello della sola parte civile avverso una sentenza di assoluzione di primo grado, la più recente giurisprudenza penale di legittimità, come si è già avuto modo di sottolineare (supra, sub 7.2), ha ritenuto di poter affermare che, “poichè l’azione civile è esercitata nel processo penale, il suo buon esito presuppone l’accertamento della sussistenza del reato, anche solo ai limitati effetti civili… il giudice del gravame deve valutare la sussistenza della responsabilità dell’imputato secondo i parametri del diritto penale e non facendo applicazione di regole proprie del diritto civile che evocano ipotesi di inversione dell’onere della prova o, peggio ancora, di responsabilità oggettiva” (Cass. Sez. IV, 18 giugno 2015, n. 42995, Gentile, che ha annullato con rinvio al giudice civile la sentenza di condanna ai soli effetti civili, pronunciata dal giudice di appello che aveva ritenuto sussistente la responsabilità civile dell’imputato sulla base dell’art. 2051 c.c.).

8.13. Infine, con riferimento al mutato quadro ordinamentale, la Corte costituzionale ha affermato due rilevanti principi ai fini che occupano il collegio, con riguardo agli effetti “irreversibili” derivanti dalla scelta del danneggiato di esercitare l’azione civile nel processo penale, ed al principio di separatezza tra giudizio civile e penale.

8.13.1. Il primo principio (Corte Cost. n. 353 del 1994) è quello secondo il quale “l’inserimento dell’azione civile nel processo penale pone in essere una situazione in linea di principio differente rispetto a quella determinata dall’esercizio dell’azione civile nel processo civile anche ove si tratti di azione di restituzioni o di risarcimento dei danni derivanti da reato, e ciò in quanto tale azione assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, sicchè è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi” – con la conseguenza che, laddove il codice di procedura penale prevede una disciplina dell’azione civile esercitata nel processo penale diversa da quella prevista dal codice di procedura civile, ove questa dipenda dalle “finalità tipiche del processo penale”, non può scorgersi alcun profilo di irrazionalità, stante la preminenza dell’interesse pubblico all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi rispetto a quelle collegate alla risoluzione delle liti civili, e considerato che “l’azione per il risarcimento o le restituzioni ben può avere ab initio una propria autonomia nella naturale sede del giudizio civile con un iter del tutto indipendente rispetto al giudizio penale, nel quale non sussistono quei condizionamenti che, viceversa, la legge impone nel caso in cui si sia preferito esercitare l’azione civile nell’ambito del procedimento penale; condizionamenti giustificati dal fatto che oggetto dell’azione penale è l’accertamento della responsabilità dell’imputato” (Corte Cost. n. 532 del 1995). Pertanto, una volta che il danneggiato, previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessagli, scelga di esercitare l’azione civile nel processo penale, anzichè nella sede propria, “non è dato sfuggire agli effetti che da tale inserimento conseguono, per via della struttura e della funzione del processo penale” (Corte Cost. n. 94 del 1996, che ha dichiarato infondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 540 c.p.p., comma 1, censurato nella parte in cui, a differenza dell’art. 282 c.p.c., non prevede la provvisoria esecutività ex lege delle disposizioni civili della sentenza di primo grado. In termini analoghi si esprimono anche Corte Cost. n. 424 del 1998 e n. 12 del 2016). Di converso – e l’affermazione appare di pregnante significato ai fini che occupano il collegio – “ove non sia rinvenibile una ragione attinente alla struttura e alla funzione del processo penale che la giustifichi, la differenza di disciplina dell’azione civile esercitata nel processo penale che privi l’imputato-convenuto di poteri che il rito civile gli riconosce deve ritenersi irragionevole” (Corte Cost. n. 353 del 1994, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 600 c.p.p., comma 3, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede che il giudice d’appello può disporre la sospensione dell’esecuzione della condanna al pagamento della provvisionale “quando possa derivarne grave e irreparabile danno”, anzichè “quando ricorrono gravi motivi”, così come previsto dall’art. 283 c.p.c.), con l’ulteriore conseguenza della non irragionevolezza della diversificazione dei diritti e dei poteri processuali attribuiti alla parte civile ed all’imputato, ritenute in più occasioni, dalla stessa Corte costituzionale, “situazioni soggettive non omologabili”.

8.13.2. Il secondo principio di rilievo affermato dalla Consulta è quello secondo il quale “l’assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all’idea della separazione dei giudizi, penale e civile”, essendo “prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo” (Corte Cost. n. 168 del 2006; in senso analogo, Corte Cost. n. 23 del 2015).

9. Ai sensi dell’art. 622 c.p.p. (“Annullamento della sentenza ai soli effetti civili”), qualora, in sede di legittimità, la sentenza sia annullata, “fermi gli effetti penali”, limitatamente alle disposizioni o ai capi riguardanti l’azione civile, ovvero sia accolto il ricorso della (sola) parte civile contro la sentenza di proscioglimento, la Corte “rinvia, quando occorre, al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile”.

Il giudizio di rinvio innanzi al giudice civile può aver luogo, pertanto:

a) a seguito dell’impugnazione della sentenza penale di condanna e del suo annullamento ai soli effetti civili;

b) a seguito di impugnazione, proposta dalla sola parte civile, della sentenza di proscioglimento, annullata ai soli effetti civili.

9.1. La ratio della norma è concordemente individuata nell’esigenza di far cessare la giurisdizione del giudice penale qualora l’accertamento penalistico debba ritenersi definitivamente compiuto, onde il giudizio di rinvio davanti al giudice civile possa celebrarsi secondo le regole (anche probatorie) proprie del processo civile, derogando alla regola, enunciata dall’art. 573 c.p.p., secondo cui l’impugnazione per i soli interessi civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale.

9.2. Sul piano dell’interpretazione storica, la norma riproduce, in parte qua, la disposizione di cui all’art. 541 codice del 1930, che disciplinava l’ipotesi di impugnazione di una sentenza penale di condanna anche agli effetti civili, annullata dalla Corte di cassazione ai soli effetti civili (ad esempio, per un errore nella liquidazione dei danni). Il novum dell’art. 622, nella parte in cui prevede il rinvio al giudice civile in caso di accoglimento, da parte della Corte di cassazione, del ricorso della (sola) parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, è frutto del recepimento, da parte del legislatore del 1988, dell’interpretazione estensiva dell’art. 541 c.p.p. abrogato, come operata dalla giurisprudenza di legittimità e da quella costituzionale (Cass. sez. un. 30 novembre 1974, n. 306; Corte Cost. n. 1 del 1970 e n. 29 del 1972).

9.3. Non è questa la sede per ripercorrere le tappe del pensiero di larga parte della dottrina processualpenalistica, che si espresse in forme assai critiche nei confronti del legislatore, accusato, a tacer d’altro, di essere incorso in un vero e proprio “lapsus normativo” equiparando, non coerentemente, due fattispecie del tutto eterogenee (quella dell’annullamento dei capi civili, ad esempio perchè i danni risultano mal liquidati, e quella dell’accoglimento del ricorso della parte civile contro un proscioglimento). Mette invece conto di rammentare come l’art. 622 sia stato ritenuto applicabile dalle Sezioni unite penali della Cassazione (Sez. un. 18 luglio 2013, n. 40109, Sciortino) anche al caso di accoglimento del ricorso per cassazione proposto dall’imputato avverso la sentenza con cui il giudice di appello, dichiarando non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato (o per intervenuta amnistia), abbia confermato le statuizioni civili senza motivare, a tal fine, in ordine alla responsabilità dell’imputato. Venne così risolto il contrasto sorto nella giurisprudenza di legittimità, che si era pronunciata talvolta a favore dell’annullamento con rinvio al giudice penale, altre volte per l’applicabilità tout court dell’art. 622 c.p.p., e, in quella fondamentale pronuncia, il giudice penale di legittimità, nel suo più alto consesso, affermò espressamente che “il tema proposto involge scelte di sistema attinenti ai rapporti tra azione civile ed azione penale nell’attuale assetto codicistico, ispirato al favor separationis; al contempo, comporta ricadute immediate sull’ampiezza della tutela riconosciuta alla parte civile, attese le diverse forme del giudizio di rinvio, a seconda che esso sia disposto verso il giudice civile ovvero verso il giudice penale, con le consequenziali, diverse regole procedimentali e probatorie”.

9.3.1. Venne, in particolare, valorizzato l’argomento secondo cui la ratio della scelta del rinvio al giudice civile, operata dall’art. 622 c.p.p., andasse ravvisata “nel principio di economia che vieta il permanere del giudizio in sede penale in mancanza di un interesse penalistico alla vicenda”, senza che una diversa conclusione potesse ipotizzarsi neppure alla luce “della considerazione che la disciplina che rinvia al giudice civile ogni questione superstite sulla responsabilità civile nascente dal reato rende inevitabile l’applicazione delle regole e delle forme della procedura civile, che potrebbero ritenersi meno favorevoli agli interessi del danneggiato dal reato rispetto a quelle del processo penale, dominato dall’azione pubblica di cui può ben beneficiare indirettamente il danneggiato dal reato. Si tratta però di evenienza che il danneggiato può ben prospettarsi al momento dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale, di cui conosce preventivamente procedure e possibili esiti, comprese le eventualità che, in presenza di cause di estinzione del reato o di improcedibilità dell’azione penale, venga a mancare un accertamento della responsabilità penale dell’imputato, e che, in caso di translatio judici, l’azione per il risarcimento del danno debba essere riassunta davanti al giudice civile competente per valore in grado di appello. Resta naturalmente fermo che, in presenza di un danno da reato, il danneggiato, in sede di rinvio, può sollecitare davanti al giudice civile anche il riconoscimento del danno non patrimoniale, negli ampi termini definiti dalla giurisprudenza civile, mentre, sul versante delle aspettative dell’imputato, il perseguimento dell’interesse a un pieno accertamento della sua innocenza, anche ai fini della responsabilità civile, può ben essere assicurato dall’opzione di rinuncia alla prescrizione – art. 157 c.p., comma 7, – o all’amnistia – Corte Cost., sent. n. 175 del 1971 -. Va infine osservato, per completezza, che l’ampia dizione dell’art. 622 c.p.p. non ammette distinzioni di sorta in relazione alla natura del vizio che inficia le statuizioni civili assunte dal giudice penale; che potranno riguardare sia vizi di motivazione in relazione ai capi o ai punti oggetto del ricorso sia violazioni di legge, comprese quelle afferenti a norme di natura procedurale, relative al rapporto processuale scaturente dall’azione civile nel processo penale”.

9.4. L’interpretazione dell’art. 622 adottata dalle Sezioni unite penali di questa Corte appaiono in linea con la giurisprudenza civile di legittimità in punto di applicabilità, nel giudizio cd. “di rinvio”, delle regole del giudizio civile, tanto processuali quanto (e soprattutto) probatorie. La via dell’annullamento con rinvio al giudice penale viene, pertanto, considerata sempre impraticabile, e ciò sia nell’ipotesi di un ricorso dell’imputato che investa solo il capo relativo alla responsabilità civile “restando preclusa, in virtù del principio devolutivo, ogni incidenza sul capo penale, su cui è stata espressa una decisione irrevocabile”, sia in quella per cui l’imputato ritenga di impugnare formalmente anche il capo penale, dovendosi in tal caso ritenere inammissibile il ricorso “in virtù del principio, già affermato dalle stesse Sezioni unite, secondo cui, in presenza dell’accertamento di una causa di estinzione del reato, non sono deducibili in sede di legittimità vizi di motivazione che investano il merito della responsabilità penale”, pena lo stravolgimento delle finalità e dei meccanismi decisori della giustizia penale “in dipendenza da interessi civili ancora sub iudice che devono essere invece isolati e portati all’esame del giudice naturalmente competente ad esaminarli”.

9.5. Applicando in extensum i principi della sentenza Sciortino, il più recente (ed ormai consolidato) orientamento del giudice penale di legittimità (ex aliis, Cass. 8 giugno 2017, n. 34878; 21 aprile 2016, n. 29627; 23 febbraio 2012, n. 15015) è nel senso che “il rilevamento in sede di legittimità della sopravvenuta prescrizione del reato unitamente ad un vizio di motivazione della sentenza di condanna impugnata in ordine alla responsabilità dell’imputato comporta l’annullamento senza rinvio della sentenza stessa e, ove questa contenga anche la condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile, l’annullamento delle statuizioni civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello”.

10. Il tema dei rapporti tra illecito penale e illecito civile nell’ipotesi di giurisdizioni concorrenti appare, a giudizio del collegio, di decisiva rilevanza in ordine alla questione posta con l’odierno ricorso, volta che, come già accennato, alcune recenti sentenze penali (tra cui quella oggetto di esame nel presente giudizio) rivendicano il potere della Corte di cassazione penale di porre al giudice civile, in sede di annullamento ex art. 622 c.p.p., vincoli relativi all’applicazione di regole probatorie penalistiche nella prosecuzione del giudizio, così mostrando di riconoscere una diversità di natura all’azione civile esercitata nel processo penale rispetto all’azione civile “ordinaria”.

10.1. Sia pur per brevi cenni, va rammentato come sia discusso, in dottrina, se l’art. 185 c.p. costituisca una norma meramente riproduttiva dell’art. 2043 c.c., oppure se sia dotata di un ruolo autonomo.

10.1.1. Alla tesi secondo cui l’art. 185 c.p. costituirebbe un mero duplicato della norma civilistica (con la conseguenza che l’illiceità penale si configura quale “categoria polivalente, idonea a dar luogo a due forme distinte di responsabilità, l’una rilevante sul piano strettamente penalistico, l’altra di natura aquiliana) si contrappone quella di chi ritiene trattarsi, invece, di una responsabilità concorrente che si verifica in quanto lo stesso fatto integra al tempo stesso un illecito penale ed un illecito civile di natura extracontrattuale, contenendo il reato tutti gli elementi dell’illecito ex art. 2043 c.c., ma senza che sia lecito discorrere di una sovrapposizione di norme che crea una duplicazione di responsabilità: la responsabilità resta unica, come è confermato dal richiamo operato dall’art. 185 alle norme civili, ma è di maggior estensione perchè oggetto del risarcimento è, oltre il danno patrimoniale, quello non patrimoniale, che non è ordinariamente risarcibile, ma lo diventa solo se ed in quanto ciò sia previsto da norme specifiche (art. 2059 c.c.), una delle quali è, appunto l’art. 185 c.p..

10.2. La prima tesi, che nega un ruolo autonomo alla norma di cui all’art. 185 c.p. rispetto al principio posto dall’art. 2043 c.c., è stata fatta propria, in tempi non recenti, anche dalla Corte di Cassazione penale (Sez. VI, 21 gennaio 1992, n. 2521 secondo cui il diritto della persona danneggiata dal reato alla restituzione ed al risarcimento del danno ha natura prettamente civilistica, e la disposizione dell’art. 185 c.p. nulla aggiunge, ai fini del suo riconoscimento, al generale principio dell’art. 2043, secondo cui qualunque fatto, doloso o colposo, che cagioni ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno. Non vale a modificare l’intrinseca natura privatistica di un fatto illecito, che sia definibile tale alla stregua delle citate norme civili, l’ulteriore condizione che il medesimo fatto sia punito dalla legge penale, espletando le due normative (quella civile, con le regole che essa richiama in funzione integratrice, e quella penale) una diversa funzione precettiva e sanzionatoria, talchè si è potuto giustamente affermare che tra le due fattispecie esiste esclusivamente una mera connessione genetica, mentre il diritto al risarcimento nasce non già dal reato, ma dal fatto storico che l’ordinamento configura come reato. Nè tale conclusione è inficiata dalla constatazione che l’art. 185 c.p., comma 2, prevede anche il risarcimento del danno non patrimoniale, perchè tale risarcibilità è pur essa affermata dalla norma civile (art. 2059) che ne fa un’enunciazione ed un’applicazione addirittura più ampia di quella penale, onde l’art. 185 diviene anch’esso regola integratrice dell’istituto civilistico, alla stregua delle altre ipotesi, prive di rilevanza penale, cui l’art. 2059 c.c. fa esplicito riferimento.

10.2.2. Una seconda tesi, invece, esclude che l’art. 185 c.p. costituisca una mera duplicazione nel sistema penale dell’art. 2043 c.c., rivestendo, di converso, il carattere di norma autonoma, che pone in primo piano il reato, cioè un fatto necessariamente tipico, “per suo conto antigiuridico”, mentre l’art. 2043 fa riferimento ad un fatto tendenzialmente atipico ed illecito in quanto causa di un danno ingiusto: danno che, soltanto eventuale rispetto al reato, rappresenta invece l’elemento costitutivo della responsabilità aquiliana. La norma penale si porrebbe, rispetto all’art. 2043 c.c., in un rapporto di specie a genere, dove la specialità è data dalla qualificazione di reato dell’illecito, qualificazione che il sistema ritiene decisiva al fine dell’ampliamento dell’obbligazione risarcitoria sino a ricomprendere il danno non patrimoniale” (altri autori ritengono, poi, che la responsabilità civile da reato non costituisca nemmeno una species della responsabilità aquiliana, bensì un’autonoma fattispecie di illecito civile: l’autonomia dell’illecito civile e della sua disciplina, che deve continuare ad applicarsi a fatti di reato non più penalmente perseguibili, è dimostrata dalla previsione dell’art. 198 c.p., che stabilisce l’inestinguibilità delle conseguenze civilistiche risarcitorie nonostante l’avvenuta estinzione della rilevanza penale di una determinata fattispecie). 10.3. Sul tema, si rammenterà come le Sezioni unite civili di questa Corte, nella fondamentale sentenza n. 500 del 1999, abbiano evidenziato, per un verso, come il giudizio civile di danno abbia concretamente assunto configurazione, carattere ed ambiti che ne hanno esaltato la totale originarietà ed autonomia, attribuendo poi natura primaria alla norma di cui all’art. 2043 c.c., che non prevede soltanto una sanzione rispetto ad altre norme di divieto, ma riveste il carattere di clausola generale espressa dalla formula “danno ingiusto”, in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell’ingiustizia, in quanto lesivo di interessi ai quali l’ordinamento attribuisce rilevanza, con la conseguenza che, avuto riguardo al carattere atipico del fatto illecito, non è possibile individuare in via preventiva gli interessi meritevoli di tutela, spettando viceversa al giudice, attraverso la comparazione tra gli interessi in conflitto, accertare se, e con quale intensità, l’ordinamento appresta tutela risarcitoria all’interesse del danneggiato, ovvero comunque lo prenda in considerazione sotto altri profili, manifestando, in tal modo, un’esigenza di protezione. Nè minor rilievo può essere attribuito al fin troppo noto superamento, ad opera del giudice delle leggi e della unanime giurisprudenza civile di legittimità, della lettura testuale dell’art. 2059 c.c., la categoria del danno non patrimoniale essendo ormai comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona costituzionalmente rilevante che abbia cagionato tale danno, risarcibile non soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge, come quello in cui sia derivato da un reato, ex art. 185 c.p.(l’autonomia dei giudizi, come predicata delle Sezioni unite civili di questa Corte, appare poi vieppiù rafforzata dalla consolidata giurisprudenza di legittimità che ha chiarito come la condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che quel giudice abbia riconosciuto che la parte civile vi ha diritto, non esige alcun accertamento in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, ma postula soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, salva restando, nel successivo giudizio civile di liquidazione del quantum, la possibilità di escludere l’esistenza stessa di un danno unito da rapporto eziologico con il fatto illecito).

10.4. L’autonomia dei due giudizi, civile e penale, ha infine trovato la sua definitiva consacrazione anche sul piano della diversità del regime probatorio applicabile al nesso di causalità nell’illecito civile e nell’illecito penale (Cass. n. 4400 del 2004; 21619 del 2007; 15991 del 2011), avendo le sezioni unite civili definitivamente chiarito (Cass. sez un. 576 del 2008) che ciò che muta tra giudizio penale e giudizio civile è la regola probatoria che nel giudizio penale può essere sintetizzata nella regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” e che in quello civile può essere riassunta nella regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”.

11. Nell’ottica di un definitivo chiarimento sulla natura, sulla portata, sugli effetti, sulle regole probatorie e procedurali applicabili al giudizio di rinvio in sede civile ex art. 622 c.p.p., quanto alla decisione sulla domanda risarcitoria, appare necessario distinguere, sul piano teorico, le due principali ipotesi di rinvio del giudice penale a quello civile ricomprese nell’ambito della norma de qua.

11.1. La prima ipotesi di annullamento si verifica quando il rinvio al giudice civile viene disposto a seguito dell’annullamento su ricorso della parte civile “ai soli effetti della responsabilità civile”, ex art. 576 c.p.p., della sentenza di assoluzione (“di proscioglimento”, recita con formula più ampia l’art. 622), limitatamente agli effetti civili.

11.2. La seconda ipotesi si verifica quando il rinvio al giudice civile viene disposto:

a) a seguito dell’annullamento delle sole disposizioni o capi della sentenza penale di condanna dell’imputato che riguardano l’azione civile (su ricorso dell’imputato ex art. 574 c.p.p. o della parte civile ex art. 576 c.p.p.);

b) a seguito di condanna (pronunciata nel precedente grado di giudizio) anche generica alle restituzioni e al risarcimento dei danni: il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare estinto il reato per amnistia o prescrizione, decidono, in tal caso, sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli effetti civili, ex art. 578 c.p.p..

11.3. Giova evidenziare che i due casi ricondotti alla seconda ipotesi di annullamento sono resi omogenei dal fatto che, a differenza della prima – ove l’annullamento ha ad oggetto ai fini civili la sentenza di assoluzione – l’annullamento ha ad oggetto le statuizioni civili della sentenza di condanna (o di non doversi procedere per estinzione del reato), e si differenziano a loro volta tra loro perchè, mentre nel primo caso la sentenza penale di condanna, almeno agli effetti penali, passa in giudicato, nella seconda non si forma un giudicato penale di condanna.

11.4. Procedendo nell’esame della natura dell’istituto dell’annullamento della sentenza agli effetti civili, va sottolineato che, in relazione ad entrambe le ipotesi, viene costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, sia pur ai fini, per lo più, dell’individuazione del giudice competente, che il giudizio di rinvio avanti al giudice civile designato che abbia luogo a seguito di sentenza resa dalla Corte di cassazione in sede penale ai sensi dell’art. 622 c.p.p. è da considerarsi come un giudizio civile del tutto riconducibile alla normale disciplina del giudizio di rinvio quale espressa dagli artt. 392 e ss. c.p.c. (Cass. 9 agosto 2007, n. 17457; in senso conforme, da ultimo, Cass. 20 dicembre 2018, n. 32929).

11.4.1. A tale conclusione si è giunti attraverso un’esegesi dell’art. 622 c.p.p. che, pur non essendo rubricato con un espresso riferimento al “rinvio” del procedimento, avrebbe pur tuttavia riguardo all’effetto di rinvio della statuizione della Cassazione penale, con un’espressione che evocherebbe “chiaramente” la fattispecie del giudizio disciplinato dagli artt. 392 e ss. c.p.c. – con la conseguenza che la fase successiva non si presenterebbe autonoma dalla vicenda del processo penale, rappresentandone invece (sia pure ai fini della sola statuizione sugli effetti civili) la prosecuzione avanti alla giurisdizione civile successivamente all’intervenuta fase di cassazione in sede penale (nella descrizione del fenomeno del passaggio dal giudizio penale di legittimità a quello di rinvio, la terminologia cui ricorre la giurisprudenza di questa Corte è la più varia, discorrendosi, di volta in volta, di trasmigrazione della contesa civile dalla sede penale a quella civile; di separazione del rapporto penale da quello civile, ovvero ancora di translatio: così, rispettivamente, Cass. 8 agosto 1990, n. 7999; Cass. 22 maggio 2006, n. 11936; Cass. 20 giugno 2017, n. 15182 e 25 settembre 2018, n. 22570).

11.5. Il meccanismo del rinvio, per un verso, assicurerebbe, secondo tale ricostruzione, il legame con lo svolgimento del processo penale e, quindi, anche con la relativa azione civile (altrimenti, si afferma, si sarebbe disciplinata la sorte dell’azione civile in altro modo, cioè prevedendo ch’essa potesse esercitarsi ex novo in sede civile); per l’altro, sottrarrebbe – nel caso di cassazione penale della sentenza di proscioglimento – il giudizio su detta azione al vincolo del giudicato (che altrimenti deriverebbe, nei limiti stabiliti dall’art. 652 c.p.p., dalla statuizione assolutoria agli effetti penali).

11.6. Con riguardo alla prima ipotesi, relativa agli effetti dell’annullamento della sentenza penale di assoluzione nel giudizio di rinvio, la giurisprudenza civile della Corte ritiene pacificamente – sia nel vigore dell’art. 541 c.p.p. del 1930, sia in base al vigente art. 622 c.p.p. – che la sentenza assolutoria della responsabilità penale dell’imputato con rinvio al giudice civile per la decisione sul risarcimento del danno determini la separazione del rapporto penale da quello civile, che prosegue dinanzi al giudice di rinvio e non è influenzato dal giudicato penale di assoluzione (Cass. 24 novembre 1998, n. 11897; 20 dicembre 2018, n. 32929. Nello stesso ordine di idee, il risalente precedente di cui a Cass. 8 agosto 1990, n. 7999). In tale ambito, il giudizio di rinvio instauratosi a seguito di annullamento della sentenza d’appello non si pone in parallelo con alcun precedente grado del processo, ma ne costituisce fase del tutto nuova ed autonoma, ulteriore e successivo momento del giudizio (cd. iudicium rescissorium) funzionale all’emanazione di una sentenza che non si sostituisce ad alcuna precedente pronuncia (nè di primo, nè di secondo grado) riformandola o modificandola, ma statuisce, direttamente e per la prima volta, sulle domande proposte dalle parti (come implicitamente confermato dal disposto dell’art. 393 c.p.c., a mente del quale, all’ipotesi di mancata, tempestiva riassunzione del giudizio, non consegue il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, bensì la sua inefficacia), poichè, nel sistema delle impugnazioni, soltanto all’appello va legittimamente riconosciuto carattere “sostitutivo” rispetto alla precedente pronuncia, nel senso che la sentenza di secondo grado è destinata a prendere il posto di quella di primo grado, che, pertanto, non rivive per l’effetto della cassazione con rinvio della pronuncia d’appello (tanto che spetta al giudice del rinvio il compito di provvedere, in ogni caso, sulle spese di tutti i precedenti gradi di giudizio, incluso il primo).

11.6.1. Da ciò consegue che la mancata riassunzione del giudizio di rinvio determina, a norma dell’art. 393 c.p.c., l’estinzione non solo di quel giudizio, ma dell’intero processo, con la derivata caducazione di tutte le sentenze emesse nel corso dello stesso, eccettuate quelle già coperte dal giudicato (in quanto non impugnate), restando inapplicabile al giudizio di rinvio l’art. 338 c.p.c., che regola gli effetti dell’estinzione del procedimento di impugnazione (Cass. 22 maggio 2006, n. 11936).

12. Dalla affermata natura del giudizio ex art. 622 c.p.p. come riconducibile alla normale disciplina del giudizio di rinvio ex art. 392 c.p.c. e dal suo carattere “chiuso” ai sensi dell’art. 394 c.p.c. discendono questioni complesse, anche con riferimento ai vincoli per il giudice di appello che derivano dalle determinazioni contenute nella sentenza penale della Corte per entrambe le ipotesi di annullamento considerate.

12.1. In ambito soggettivo, si è ritenuto non consentito l’intervento del terzo il quale non abbia partecipato al processo penale, se non nei limiti in cui egli deduca la titolarità di un diritto autonomo, al fine di prevenire un pregiudizio attuale che, dalla esecuzione della sentenza, potrebbe a lui derivare, tale da legittimare la proposizione dell’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. (Cass. 10 aprile 2015, n. 7175; 20 novembre 1998, n. 11743).

12.2. In ambito oggettivo, è stato poi affermato, da una giurisprudenza peraltro risalente (e non utile ai fini che occupano il collegio, come meglio si dirà più innanzi) che, pur quando si tratti di rinvio dopo annullamento delle sole disposizioni civili di sentenza penale, i limiti e l’oggetto del giudizio di rinvio sono fissati dalla sentenza di cassazione, sicchè anche in questo caso il giudice di rinvio è chiamato a compiere l’esame della controversia, rimanendo entro il solco tracciato da questa ultima sentenza” (Cass. 26 luglio 1985, n. 4353; 22 marzo 1991, n. 3063; 29 aprile 1994, n. 4164), precisandosi ancora che l’efficacia preclusiva riconosciuta alla sentenza di cassazione riguarda non soltanto le questioni dedotte nel giudizio di legittimità ma anche quelle che in tale giudizio avrebbero potuto essere prospettate dalle parti o rilevate d’ufficio dalla Corte di cassazione quale necessario presupposto della sentenza, come ad esempio l’esistenza di un giudicato interno. Pertanto anche in caso di rinvio dopo annullamento delle sole disposizioni civili di sentenza penale, i limiti e l’oggetto del giudizio di rinvio sono fissati esclusivamente dalla sentenza di cassazione, la quale non può essere sindacata o elusa dal giudice di rinvio neppure se fosse eventualmente erronea (Cass. 28 giugno 1997, n. 5800).

12.2.1. In ordine al contenuto dell’atto di riassunzione, appare poi consolidato l’insegnamento (di recente, Cass. 19 dicembre 2017, n. 30529) secondo cui “l’atto di riassunzione della causa innanzi al giudice di rinvio, poichè non dà luogo ad un nuovo procedimento, ma ad una prosecuzione dei precedenti gradi di merito, non deve contenere, ai fini della sua validità, la specifica riproposizione di tutte le domande, eccezioni e conclusioni originariamente formulate, essendo sufficiente che siano richiamati l’atto introduttivo del giudizio ed il contenuto del provvedimento in base a cui avviene tale riassunzione. Ne consegue che il giudice innanzi al quale sia stato riassunto il processo non incorre nel vizio di ultrapetizione qualora pronunci su tutta la domanda proposta nel giudizio ove fu emessa la sentenza annullata e non sulle sole diverse conclusioni formulate con il suddetto atto di riassunzione”.

12.3. Quanto alla disciplina processuale, si è ritenuto che anche il regime dei nova sia quello proprio del giudizio di rinvio disciplinato dall’art. 394 c.p.c., cioè quello “del divieto per le parti di nuova attività assertiva o probatoria, che non si renda necessaria in conseguenza della pronuncia di cassazione”.

12.3.1. In particolare, con riguardo alla delicata tematica dell’utilizzabilità o meno, nel giudizio di rinvio, della testimonianza resa dalla persona offesa in sede penale, si è ritenuto (del tutto incondivisibilmente, come di qui a breve meglio si dirà) che essa conservi il suo valore di prova giacchè in tal caso continuano ad applicarsi in parte qua le regole proprie del processo penale e la deposizione giurata della parte civile, ormai definitivamente acquisita ed ineludibile, deve essere esaminata dal giudice di rinvio esattamente come avrebbe dovuto esaminarla il giudice penale se le due azioni non si fossero occasionalmente separate (Cass. 14 luglio 2004, n. 13068), mentre, per altro verso (e non del tutto consonantemente), il ricorso alle presunzioni semplici da parte del giudice di rinvio è stato ritenuto ammissibile nell’ambito del solco tracciato dalla sentenza di cassazione penale sugli stessi fatti di cui alla contestazione originaria (Cass. 20 dicembre 2018, n. 32929).

12.4. Definitivamente superato appare, poi, l’iniziale (e non condivisibile) orientamento di questa Corte (Cass. 19 gennaio 1996, n. 417, ripreso ancora, di recente, da Cass. 8 aprile 2015, n. 7004) in merito al quesito se si formi o meno un giudicato interno in ordine all’azione civile in caso di condanna generica al risarcimento dei danni non impugnata dalla parte civile riguardo all’omessa liquidazione dei danni – orientamento secondo cui il giudicato interno formatosi nei vari gradi del processo penale deve ritenersi operante nel giudizio civile di rinvio: allorchè nel giudizio penale di merito il giudice si sia limitato a pronunciare condanna generica al risarcimento e la mancata liquidazione del danno non abbia formato oggetto di impugnazione, non è consentito al giudice civile di appello, cui la causa sia stata rimessa a seguito di annullamento, ai soli effetti civili, da parte della Corte di cassazione, ampliare i limiti del decisum propri della sentenza impugnata, procedendo alla liquidazione del danno -. Un recente arresto del 2017, condiviso dalla successiva giurisprudenza, viceversa, ha correttamente affermato che, nell’ipotesi di annullamento ai soli effetti civili della sentenza penale contenente condanna generica al risarcimento del danno, si determina una piena translatio del giudizio sulla domanda risarcitoria al giudice civile competente per valore in grado di appello, il quale può procedere alla liquidazione del danno anche nel caso di mancata impugnazione dell’omessa pronuncia sul quantum ad opera della parte civile, atteso che, per effetto dell’impugnazione dell’imputato contro la pronuncia di condanna penale – la quale estende la sua efficacia a quella di condanna alle restituzioni ed al risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 574 c.p.p., comma 4, – deve escludersi che si sia formato il giudicato interno sull’azione civile, sicchè questa viene sottoposta alla cognizione del giudice del rinvio nella sua integrità, senza possibilità di scissione della decisione sull’an da quella sul quantum (Cass. 20 giugno 2017, n. 15182; in senso conforme, Cass. 25 settembre 2018, n. 22570 e 20 dicembre 2018, n. 32930).

12.4.1. Viene così valorizzato, in primo luogo, il fondamento dell’impostazione, “nuova rispetto alla tradizione”, adottata dal legislatore del 1988 ed orientata verso l’evidente valorizzazione dell’autonomia della giurisdizione civile rispetto a quella penale, specificandosi ancora che “il contenuto del giudizio di rinvio non può essere compresso e/o ridotto dal giudice remittente in contrasto con il dettato normativo: il remittente indicherà al giudice del rinvio quel che ancora deve essere accertato, ma non potrà vietargli di pervenire alla decisione conclusiva sulla domanda civile, poichè l’art. 622 non gli attribuisce il potere di imporre a chi ha esercitato l’azione civile in sede penale in modo completo – e quindi non chiedendo soltanto una condanna generica – una obbligatoria scissione della decisione sull’an da quella sul quantum, costringendolo ad un processo ulteriore, e quindi ad un – incostituzionale, perchè di per sè non necessario incremento del tempo necessario per far valere compiutamente il proprio diritto”.

13. Sulla base di tali premesse, il collegio è chiamato ad affrontare la questione dell’efficacia e della rilevanza, in guisa di principio di diritto indeclinabile e ineludibile in sede di giudizio civile di rinvio, dell’indicazione dei criteri probatori del nesso causale che, come si è più volte accennato, alcune recenti sentenze penali di questa Corte impongono al giudice di appello all’esito dell’annullamento agli effetti civili di sentenze di assoluzione, ex art. 622 c.p.p. (supra, sub 7.2.).

13.1. Va, in altri termini, scrutinata la legittimità del principio, affermato dalla Corte in sede penale, secondo cui, nel giudizio di rinvio, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità, il giudice civile è tenuto ad applicare le regole di giudizio del diritto penale e non le distinte regole di giudizio consolidatesi nella giurisprudenza civile, in quanto “l’azione civile che viene esercitata nel processo penale è quella per il risarcimento del danno, patrimoniale o non, cagionato dal reato, ai sensi dell’art. 185 c.p. e art. 74 c.p.p., con la conseguenza che nella sede civile, coinvolta per effetto della presente pronunzia, la natura della domanda non muta: si dovrà cioè valutare incidentalmente l’esistenza di un fatto di reato in tutte le sue componenti obiettive e subiettive, alla luce delle norme che regolano la responsabilità penale, prima tra tutte quella della causalità omissiva alla stregua dei principi espressi dalla giurisprudenza penale di questa Corte. E ciò perchè il giudice civile del rinvio sarebbe tenuto a valutare la sussistenza della responsabilità dell’imputato secondo i parametri del diritto penale e non facendo applicazione di regole proprie del diritto civile” in quanto, “poichè l’azione civile è esercitata nel processo penale, il suo buon esito presuppone l’accertamento della sussistenza del reato” (Cass. pen. Sez. IV, 11 ottobre 2016, n. 45786, Assaiante; 8 giugno 2017, n. 34878, Soriano; 8 febbraio 2018, n. 43896, Luvaro; 16 novembre 2018, n. 412/2019, De Santis).

13.2. Quanto al tema dell’utilizzabilità delle prove assunte nel giudizio penale, la stessa Corte penale di legittimità, nell’annullare – per vizio di motivazione e senza rinvio agli effetti penali per intervenuta prescrizione del reato, ma con rinvio agli effetti civili ex art. 622 c.p.p. – una sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la sentenza di condanna di primo grado per il reato di falsa testimonianza fondata su dichiarazioni di un ufficiale di polizia giudiziaria, ritenute dalla Corte inutilizzabili perchè assunte in violazione del divieto posto dall’art. 195 c.p.p., comma 4, ha affermato (in spregio alla conclamata inesistenza, in seno al processo civile, di una qualsivoglia categoria riconducibile all'”inutilizzabilità” di una prova) che “la prova inutilizzabile nel processo penale, perchè assunta in violazione di un espresso divieto probatorio, non potrà essere utilizzata nel giudizio civile, atteso che diversamente, si realizzerebbe una sostanziale elusione dell’accertamento compiuto in sede penale.”(Cass. Sez. VI 8 febbraio 2018, n. 43896, cit.).

13.3. Richiamando i principi affermati dalla meno recente giurisprudenza civile di legittimità (ma obliterando del tutto di considerare, in parte qua, il recente revirement operato dalla stessa Cassazione civile: supra, sub 7.3.), il giudice penale ritiene, in definitiva, che i limiti e l’oggetto del giudizio di rinvio siano il precipitato di quelli fissati nella sentenza di annullamento ai sensi dell’art. 622 c.p.p., volta che la fase successiva non si presenterebbe come autonoma dalla vicenda del processo penale, rappresentandone di converso – sia pure ai fini della sola statuizione sugli effetti civili – la sua prosecuzione avanti alla giurisdizione ordinaria civile, dinanzi alla quale le parti devono riproporre la domanda nei medesimi termini e nel medesimo stato di istruzione anteriore alla decisione della Corte di cassazione, senza tendenziale possibilità di svolgere una nuova attività assertiva o probatoria, salvi i casi in cui tale attività sia resa necessaria da fatti sopravvenuti o dalla sentenza della Corte.

13.4. Individuata l’azione civile esercitata nel processo penale come “quella per il risarcimento del danno, patrimoniale o non, cagionato dal reato, ai sensi dell’art. 185 c.p. e art. 74 cod. proc. pen.” si opina che “davanti al giudice civile, coinvolto per effetto del rinvio contenuto nell’art. 622 c.p.p., la natura della domanda non muta, oggetto del giudizio risarcitorio essendo il prodromico accertamento incidentale della esistenza di un fatto di reato in tutte le sue componenti obiettive e subiettive, e al giudice civile non è consentita la utilizzazione di una prova dichiarata inutilizzabile nel processo penale. L’art. 622 c.p.p. dispone una piena translatio del giudizio sulla domanda civile superstite a quello penale operata dal giudice di legittimità penale, pur se “fermi gli effetti penali della sentenza” (che, nella specie, attengono alla estinzione del reato per maturata prescrizione). L’annullamento con rinvio della Corte non ha ad oggetto la restituzione dell’azione civile “all’organo giudiziario cui essa appartiene”, ma opera una translatio della competenza funzionale del giudice penale a quello civile. L’oggetto del giudizio di rinvio è costituito da tutto quello che rimane da decidere in ordine all’azione civile, esercitata nell’ambito del processo penale”, con la conseguenza che la Corte di appello, in sede di rinvio, dovrebbe giudicare del fatto applicando, quanto alla valutazione del nesso di causalità, i criteri penalistici e non quelli propri del giudizio civile (Cass. Sez. IV, 16 novembre 2018, cit.).

14. Il collegio ritiene di non poter condividere i principi recentemente affermati dalle richiamate sentenze della Cassazione penale (che, a tacer d’altro, appaiono del tutto dissonanti da quelli che si leggono nella più volte citata pronuncia delle stesse sezioni unite penali del 2013 in tema di autonomia, processuale e probatoria, del giudizio civile di rinvio).

14.1. Le questioni che si pongono, in conseguenza dei vincoli, processuali e probatori, posti dalla Cassazione penale al giudice civile in sede di rinvio sono, pertanto, le seguenti:

a) La prima attiene all’oggetto del processo, considerato che il diritto al risarcimento dei danni è un diritto eterodeterminato (Cass. Sez. un., 27 dicembre 2010 n. 26128), sicchè l’identificazione della domanda è conseguenza esclusiva dell’individuazione del petitum e della causa petendi.

b) La seconda afferisce al rapporto tra l’azione civile esercitata nel processo penale ed i fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno – individuati, in quella sede, con esclusivo riferimento al reato oggetto dell’esercizio dell’azione penale.

c) La terza ha riguardo alla rilevanza, sul piano probatorio, dell’attività difensiva svolta dalle parti nel processo penale, destinata a dipanarsi in relazione agli elementi rilevanti ai fini della responsabilità penale dell’imputato: all’esito della trasmigrazione del procedimento dalla sede penale a quella civile, diverso è l’ambito entro cui l’attività difensiva verrebbe a svolgersi, ove fosse consentito alle parti di trattare le relative questioni (e al giudice del rinvio di deciderle) in base alla prospettazione del fatto sotto il profilo non del reato, ma dell’illecito civile ex art. 2043 e ss.;

d) La quarta, collegata alla precedente, pone l’interrogativo se l’istituto dell’annullamento deciso dalla cassazione penale “solo” agli effetti civili consenta che il fatto storico perda la sua originaria connessione con il reato per riacquistare il carattere di illecito civile, e seguire conseguentemente i canoni probatori propri di quel processo, con particolare riguardo alla fattispecie del nesso causale.

e) La quinta ha riguardo al rapporto tra l’illecito civile e i reati a condotta vincolata. Nell’azione civile esercitata nel processo penale, la fattispecie posta a fondamento del diritto al risarcimento del danno è quella prevista dalla norma incriminatrice, che, in caso di reati a condotta vincolata, deve presentare le specifiche modalità previste dalla norma penale. Ove l’azione civile esercitata nel processo penale abbia ad oggetto il risarcimento del danno causato da un reato a condotta vincolata, si pone il problema se, nel giudizio di rinvio innanzi al giudice civile competente per valore in grado d’appello, possano essere fatte valere (e il giudice possa accogliere la domanda sulla base di) modalità della condotta diverse da quelle tipizzate dalla norma penale, che pacificamente rilevino, invece, ai sensi dell’art. 2043 c.c..

f) La sesta pone l’interrogativo circa la difforme valutazione dell’elemento soggettivo dell’illecito ove l’azione civile sia stata esercitata in un processo penale per un reato doloso e la legge penale non preveda espressamente la punibilità del fatto anche a titolo di colpa (come, ad esempio, per il reato di danneggiamento): in tali ipotesi, ci si interroga se, nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p., possa essere fatto valere il (e il giudice possa accogliere la domanda sulla base del) diverso elemento soggettivo della colpa, perfettamente fungibile con quello del dolo nell’illecito civile, a differenza che per i delitti (art. 42 c.p., comma 2). Ed ancora, nel diverso caso in cui il processo penale abbia avuto ad oggetto un reato colposo, si pone la speculare questione se, nel giudizio civile di rinvio, l’elemento soggettivo della colpa sia omologo o meno all’elemento soggettivo del reato (cioè se la nozione di colpa civile sia sovrapponibile alla nozione di colpa penale).

g) La settima si pone con riguardo all’ipotesi di azione civile esercitata nel processo penale per un reato colposo qualora, nel giudizio di rinvio innanzi al giudice civile, la domanda di risarcimento venga formulata in base ad un diverso titolo di responsabilità, diverso da quella generale per colpa di cui all’art. 2043 c.c. (come nelle ipotesi di cui agli artt. 2048 e ss. c.c.).

h) L’ottava, infine, pone l’interrogativo se la sussistenza di una causa di non punibilità prevista dalla legge penale (in tema di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, quella prevista dall’art. 590-sexies c.p., comma 2) precluda o meno l’accoglimento della domanda risarcitoria in sede civile.

14.1.1. Sul piano processuale, va nuovamente ricordato che l’orientamento largamente prevalente della giurisprudenza civile di questa Corte, ritenendo applicabile al giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p. la disciplina di cui agli artt. 392 e segg. c.p.c., esclude che in tale giudizio le parti possano svolgere nuova attività assertiva o probatoria in ragione della sua natura cd. “chiusa” (supra, sub 7.3. e 11.4).

15. La soluzione delle questioni appena esposte dipende in larga misura dalla configurazione strutturale e funzionale del giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p., in ordine alla quale vengono adombrate tre diverse tesi, tra loro alternative.

15.1. Un primo orientamento considera il giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p. come prosecuzione stricto iure di quello penale, con la conseguenza, tra le altre, che il danneggiato non potrà far valere in questa fase fatti costitutivi diversi da quelli che integrano la fattispecie di reato contestata in sede penale. Su tale premessa si fondano le argomentazioni della più recente giurisprudenza penale di legittimità, più volte ricordata, secondo cui “l’azione civile che viene esercitata nel processo penale è quella per il risarcimento del danno, patrimoniale o non, cagionato dal reato, ai sensi dell’art. 185 c.p. e art. 74 c.p.p., con la conseguenza che, nella sede civile, la natura della domanda non muta: si dovrà, cioè, valutare incidentalmente l’esistenza di un fatto di reato in tutte le sue componenti obiettive e subiettive.

15.2. La seconda tesi ricostruisce il giudizio di rinvio ex art. 622 in termini di procedimento autonomo su di un piano tanto morfologico quanto funzionale, volta che, a seguito dell’annullamento ai soli effetti civili, si realizzerebbe una scissione strutturale tra giudizi ed una divaricazione funzionale tra materie a seguito della “restituzione” dell’azione civile così ripristinata all’organo giudiziario cui essa appartiene naturalmente. Soltanto formalmente sarebbe lecito discorrere, pertanto, di una “prosecuzione” del giudizio, mentre neanche su di un piano formale appare legittimo qualificarla come continuazione del giudizio penale, il giudizio di rinvio svolgendosi solo tecnicamente secondo la disciplina dettata dagli artt. 392 e 394 c.p.c..

15.3. Una terza tesi, intermedia tra le prime due, è infine quella (suggestivamente prospettata in dottrina) secondo la quale, da un canto, il giudizio di rinvio sarebbe “vicenda autonoma rispetto al processo penale, non rappresentandone – sia pure ai fini della sola statuizione sugli effetti civili – la prosecuzione avanti alla giurisdizione ordinaria civile, successivamente alla intervenuta fase di cassazione in sede penale” e pertanto “dotata di autonomia strutturale e funzionale essendosi verificata una scissione tra le materie sottoposte a giudizio mediante il ritorno dell’azione civile alla cognizione del suo giudice naturale”; dall’altro, tuttavia (ma non del tutto coerentemente con la premessa strutturale), “il giudice civile dovrebbe uniformarsi al principio di diritto contenuto nella pronuncia penale di legittimità, e ciò perchè egli è investito della controversia esclusivamente entro i limiti segnati dalla sentenza di cassazione e dalle questioni da essa decise, secondo il combinato disposto dell’art. 384 c.p.c., comma 2 e art. 143 disp. att. c.p.c.)”. La sentenza della Cassazione penale “vincolerebbe, pertanto, il giudice di rinvio non solo in ordine al principio di diritto affermato, ma anche quanto alle questioni di fatto costituenti il presupposto necessario ed inderogabile della pronuncia”.

16. Mentre l’adozione della prima tesi (e, sul piano procedurale, della terza) risolverebbe tout court le questioni sopra elencate, escludendone in radice la rilevanza, la seconda ne impone inevitabilmente l’esame, rimuovendosi, con essa, i limiti connessi alla collocazione originaria dell’azione civile in seno al processo penale.

16.1. In altri termini:

a) se si ritiene che il giudizio dinanzi alla Corte d’appello civile costituisca, formalmente e sostanzialmente, la fase rescissoria dell’impugnazione svoltasi innanzi alla Corte di cassazione penale, si dovrà riconoscere a quest’ultima il potere di enunciare il principio di diritto al quale il giudice del rinvio deve (al di la della sua correttezza) uniformarsi, in base alle regole stabilite, in guisa sostanzialmente speculare, dai codici di rito penale e civile (art. 173 disp. att. c.p.p., comma 2 e art. 384 c.p.c.;

b) se invece si ritiene che, a seguito dell’annullamento con rinvio al giudice civile ex art. 622 c.p.p., l’azione civile (ri)acquisti la sua autonomia morfologica e funzionale rispetto al giudizio penale ormai concluso, in ragione della scissione determinatasi a seguito della valutazione compiuta dal giudice penale al riguardo, andrà negato il potere della Corte di cassazione penale di enunciare un principio di diritto, procedurale e/o probatorio, al quale il giudice del rinvio deve uniformarsi.

17. La soluzione della delicata questione processuale sottoposta all’esame del collegio non può prescindere, in limine, dal significativo principio affermato nella più volte ricordata sentenza Sciortino delle Sezioni unite penali di questa Corte, che ritengono applicabili, nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p., “le regole e le forme della procedura civile”: e non sembra potersi seriamente dubitare che tale affermazione abbia riguardo alla disciplina processuale e probatoria del processo civile, tali essendo, rispettivamente e inconfutabilmente, le forme e le regole di quel giudizio. Nè meno illuminante appare il dictum delle stesse sezioni unite penali (Cass. ss.uu. 29 maggio 2008, n. 40049, Guerra), a mente del quale “spetta alle sezioni civili della Corte il compito di fornire la corretta interpretazione delle disposizioni che regolano gli effetti nei giudizi civili delle decisioni adottate in altre sedi, compresa quella penale: il giudice penale deve, quindi, quanto meno tendere ad un’interpretazione uniforme, che tenga conto del diritto vivente applicato dai giudici civili, e che eviti contrasti di giurisprudenza tanto più gravi in quanto non è prevista una sede deputata alla loro composizione”.

17.1. E’ ancora la meno recente giurisprudenza penale ad affermare che, una volta venuto meno lo spazio per ulteriori pronunce del giudice penale, mancherebbe la stessa “ragion d’essere della speciale competenza promiscua (penale e civile) attribuita al giudice penale in conseguenza della costituzione di parte civile” (Cass. pen. 27/4/2010, n. 32577, Preti; Cass. pen. 17/4/2013, n. 23944, Corrado), facendo difetto quell’interesse penalistico alla vicenda che giustifica il permanere della questione in sede penale: in virtù del principio di economia processuale, la decisione sugli aspetti civili viene rimessa al giudice civile, competente a pronunciarsi sia sull’an che sul quantum, avendo il giudizio di rinvio, disposto ai sensi dell’art. 622 c.p.c., ad oggetto “un tema ed una situazione giuridica soggettiva autonomi rispetto a quelli concernenti il dovere di punire, pur avendo in comune il fatto, quale presupposto del diritto al risarcimento”.

17.2. Si deve conseguentemente dubitare che la Corte di cassazione penale abbia il potere di stabilire, in sede di annullamento con rinvio al giudice civile, quali siano le regole e le forme da applicare in tale giudizio, poichè tale compito deve ritenersi demandato integralmente al giudice civile di appello, ed alla stessa Corte di cassazione civile investita dell’eventuale impugnazione della decisione emessa in sede di rinvio ex art. 622 c.p.p..

17.2.1. La definitività, l’irretrattabilità, l’intangibilità della decisione adottata in ordine alla responsabilità penale dell’imputato, determinate dalla pronuncia con la quale la Corte di cassazione (penale) annulla le sole disposizioni o i soli capi che riguardano l’azione civile (promossa in seno al processo penale), ovvero accoglie il ricorso della parte civile avverso il proscioglimento dell’imputato, deve, a giudizio del collegio, ritenersi tale da provocare il radicale e definitivo dissolvimento delle ragioni che avevano originariamente giustificato, a seguito della costituzione della parte civile nel procedimento penale, le rilevanti e consistenti deroghe alle modalità di istruzione e di accertamento dell’azione civile, imponendone i condizionamenti, i termini, i limiti e le latitudini proprie del codice di rito penale, dei suoi profili funzionali e delle sue specifiche finalità, giusta l’insegnamento dello stesso Giudice delle leggi più volte ricordato, che deve ritenersi, peraltro, limitato proprio (e solo) all’ambito del giudizio penale ed al suo definitivo esaurimento.

17.3. Varrà, infatti, considerare come, una volta consentito l’inserimento dell’azione civile nella struttura del processo penale, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il suo accoglimento (prospettato come richiesta risarcitoria e/o restitutoria conseguente alla commissione, da parte dell’imputato, dei fatti indicati nel capo d’accusa come reato) necessariamente presupponga la pronuncia di una condanna dell’imputato; sì che, coerentemente, il giudice penale di primo grado è abilitato a pronunciare sull’azione civile nel solo caso in cui (“quando”) pronunci una sentenza di condanna (art. 538 c.p.p., comma 1), dovendo, in caso di proscioglimento dell’imputato per qualsiasi causa, astenersi dal pronunciare sull’azione civile. Viceversa, là dove, in sede d’appello, il giudice penale ritenga di dover riformare la condanna pronunciata dal primo giudice (prosciogliendo l’imputato), ovvero sia investito della sola impugnazione proposta dalla parte civile avverso l’assoluzione dell’imputato, detto giudice, non potendo restituire l’azione civile alla sede sua propria, dovrà al contrario procedere e decidere su di essa secondo i canoni propri del rito penale (art. 578 c.p.p.), essendo tale conseguenza imposta, da un lato, dal potenziale persistere del conflitto sui capi penali (come nel caso di eventuale ricorso per cassazione della parte pubblica) e, dall’altro, dalla circostanza costituita dal trattarsi (in caso di impugnazione della sola parte civile) di una decisione comunque emessa da un giudice penale, su un’impugnazione proposta avverso una sentenza penale e nel corso di un processo penale, sia pure arricchito dall’originaria, strutturale, legittima connessione delle due azioni (civile e penale).

17.4. Varrà, in proposito considerare ancora:

– che il giudizio innanzi al giudice del rinvio si introduce mediante citazione, anzichè con atto riassuntivo;

– che la citazione deve essere notificata alla parte personalmente e non nelle forme previste dall’art. 170 c.p.c., dettato (come precisa la rubrica dell’articolo) per la ipotesi del procedimento in corso;

– che dal disposto dell’art. 393 c.p.c. (a mente del quale all’ipotesi di mancata, tempestiva riassunzione del giudizio, non consegue il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, bensì la sua inefficacia), si desume in via indiretta che la sentenza del giudice del rinvio non si sostituisce ad alcuna precedente pronuncia (nè di primo, nè di secondo grado), riformandola o modificandola, ma statuisce, direttamente e per la prima volta, sulle domande proposte dalle parti (Cass. 22/05/2006, n. 11936);

– che il giudice del rinvio ha il compito di provvedere sulle spese di tutti i precedenti gradi di giudizio, incluso il primo, proprio perchè la sua sentenza non ha carattere sostitutivo di alcuna precedente pronuncia (Cass. 22/05/2006, n. 11936).

17.5. Va, pertanto, definitivamente affermato che, essendo ormai intervenuto un giudicato agli effetti penali, ed essendo venuta meno, con l’esaurimento della fase penale del giudizio, la ragione stessa di attrazione dell’illecito civile nell’ambito delle regole della responsabilità penale, risulta coerente con la stessa ragion d’essere dell’intero assetto normativo destinato a disciplinare la materia che la domanda risarcitoria, quale precipitato di una complessa chimica interdisciplinare, venga esaminata secondo le regole proprie dell’illecito aquiliano – regole le cui peculiarità appaiono consolidata conseguenza della attuale funzione della responsabilità civile, volta all’individuazione del soggetto su cui, secondo il sistema del diritto civile, far gravare le conseguenze risarcitorie del danno verificatosi nella sfera giuridica della vittima, e non (più) a comminargli una sanzione (penale).

17.5.1. Nell’imporre al giudice civile una pronuncia sull’esatta interpretazione di norme penali e sull’applicazione delle regole, processuali e probatorie, di un giudizio (erroneamente) ritenuto “prosecutorio”, del resto, si correrebbe il rischio che la Corte di Cassazione, nella sua duplice articolazione, civile e penale, pervenga a soluzioni interpretative contrastanti all’interno del medesimo processo, suscettibili di indebolire la funzione nomofilattica dell’indirizzo ermeneutico espresso dal giudice di legittimità.

18. Le premesse così tracciate in ordine ai rapporti tra l’azione penale e l’azione civile promossa nell’ambito processuale della prima consentono di dar conto della natura e delle ragioni effettive della disciplina di cui all’art. 622 c.p.p., ai sensi del quale “fermi gli effetti penali della sentenza, la corte di cassazione, se ne annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, rinvia quando occorre al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile”.

In tal caso, non potendo più prospettarsi alcuna potenziale persistenza di un conflitto sui capi penali, il legislatore processuale si è trovato dinanzi ad una scelta:

a) disporre un ritorno della causa al giudice penale d’appello – ciò che avrebbe coerentemente soddisfatto la circostanza costituita dal trattarsi di una decisione comunque emessa da un giudice penale, su un’impugnazione proposta avverso una sentenza penale e nel corso di un processo penale, sia pure arricchito dall’originaria, strutturale connessione delle due azioni (come, peraltro, previsto dal codice di procedura penale per altre ipotesi in cui il giudizio permane in sede penale, sebbene coinvolga questioni relative alla sola azione civile esercitata nel processo penale, nelle quali è del tutto pacifico che il giudice applichi alla azione civile le regole penali, come nel caso di appello proposto dalla sola parte civile avverso la sentenza di proscioglimento, ove la Corte di merito decide l’impugnazione previo accertamento incidentale della sussistenza o meno della responsabilità penale applicando le regole penali, come previsto dall’art. 573 c.p.p.);

b) prendere coerentemente atto, rimettendo le parti dinanzi al giudice civile, del definitivo dissolvimento di quelle ragioni che avevano originariamente giustificato, a seguito della costituzione di parte civile, il “sacrificio” dell’azione civile alle ragioni dell’accertamento penale.

18.1. Significativamente, la scelta legislativa ha privilegiato tale ultima soluzione, imponendo il ritorno dell’azione civile alla sede sua propria, e discorrendo di una forma di “rinvio” (quello di cui all’art. 622 c.p.p.) la cui natura, tuttavia, solo formalmente (attesane l’infungibilità lessicale) evoca i principi propri di quel giudizio, ma che non può in alcun modo configurarsi alla stregua di una “prosecuzione” del processo penale (ogni interesse penalistico dovendosi ritenere ormai definitivamente dissolto), bensì alla stregua di giudizio autonomo (benchè sui generis), sia in senso strutturale che funzionale, essendosi realizzata la definitiva scissione tra le materie sottoposte a giudizio, mediante la restituzione dell’azione civile – con il giudizio di “rinvio”, che più opportunamente andrebbe definito di rimessione – all’organo giudiziario cui essa appartiene naturalmente (in proposito, non appare senza significato che autorevole dottrina abbia prospettato l’esigenza di riflettere, de iure condendo, sull’opportunità di lasciare alla competenza del giudice penale anche il giudizio di rinvio ai soli effetti civili, in linea con la strada suggerita dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 29 del 1972: soluzione, questa, che avrebbe l’indubbio pregio di ricondurre a coerenza il sistema, al pari di quella, affatto speculare, e pure adombrata in dottrina e nei lavori preparatori del codice di rito penale, di escludere tout court la parte civile dal processo penale).

18.2. Di difficile comprensione, viceversa, sarebbe il dettato normativo nella parte in cui, con l’inciso “quando occorre”, consentirebbe (ed anzi imporrebbe, in forza del principio costituzionale del giusto processo, che vuol dire anche processo celere) al giudice penale di risolvere la questione civilistica rigettando sic et simpliciter la domanda, in applicazione dei propri criteri di giudizio alla fattispecie risarcitoria.

18.3. Il giudizio di rinvio, pertanto, solo formalmente costituisce una prosecuzione di quello penale, attesa la sopravvenuta impossibilità – una volta esauritasi definitivamente ogni questione riguardante il preliminare accertamento in concreto di un reato (in quanto tale) – di rinvenire alcuna giustificazione a fondamento delle deroghe alle modalità di istruzione e di accertamento dell’azione civile.

18.4. Si è dunque al cospetto, giusta il disposto dell’art. 622 c.p.p. così correttamente interpretato, di una sostanziale, definitiva ed integrale translatio iudicii dinanzi al giudice civile, con la conseguenza che rimane del tutto estranea all’assetto del giudizio di rinvio la possibilità di applicazione di criteri e regole probatorie, processuali e sostanziali, tipiche della fase penale esauritasi a seguito della pronuncia della Cassazione, atteso che la funzione di tale pronuncia, al di là della restituzione dell’azione civile all’organo giudiziario a cui essa naturaliter appartiene, è limitata a quella di operare un trasferimento della competenza funzionale dal giudice penale a quello civile, essendo propriamente rimessa in discussione la res in iudicium deducta, nella specie costituita da una situazione soggettiva ed oggettiva del tutto autonoma (il fatto illecito) rispetto a quella posta a fondamento della doverosa comminatoria della sanzione penale (il reato), attesa la limitata condivisione, tra l’interesse civilistico e quello penalistico, del solo punto in comune del “fatto” (e non della sua qualificazione), quale presupposto del diritto al risarcimento, da un lato, e del dovere di punire, dall’altro.

19. Deve pertanto essere rimeditata tout court la stessa questione dei limiti processuali imposti dalla natura cd. chiusa del giudizio di rinvio ex art. 394 c.p.c., comma 3.

19.1. La morfologia di quel giudizio, ricostruita in termini di autonomia strutturale e funzionale rispetto al processo penale ormai conclusosi, consente di ritenere legittima, oltre alla possibilità di formulazione di nuove conclusioni sorte in conseguenza di quanto rilevato dalla sentenza di cassazione penale, anche l’emendatio della domanda ai fini della prospettazione degli elementi costitutivi dell’illecito civile, sia pur nei limiti del sistema generale delle preclusioni fissato dall’art. 183 c.p.c., alla luce del recente insegnamento delle sezioni unite di questa Corte (Cass. Sez. U, 15 giugno 2015 n. 12310: in termini, di recente, per l’ammissibilità della modificazione dell’originaria domanda risarcitoria – formulata da un investitore nei confronti dell’intermediario finanziario – in quella di risoluzione per inadempimento, Cass. 25 maggio 2018 n. 13091; ancora, per ammissibilità della sostituzione della originaria domanda di adempimento di un’obbligazione contrattuale con quella di ingiustificato arricchimento, Cass. Sez. U., 13 settembre 2018 n. 22404).

19.1.1. L’emendatio della domanda risulterà pertanto oggetto di legittima proposizione da parte del danneggiato, e di un altrettanto legittimo esame da parte del giudice, stante la disciplina del codice di rito penale che, con riferimento alle formalità della costituzione di parte civile, impone modalità contenutistiche e formali sostanzialmente omologhe a quelle previste dal codice di rito civile per il contenuto della citazione analogamente a quanto si legge all’art. 163 c.p.c., comma 3, n. 4, nel codice di rito penale viene previsto sia che la dichiarazione di costituzione contenga, tra l’altro, “l’esposizione delle ragioni che giustificano la domanda” (art. 78 c.p.p., comma 1, lett. d)), sia che la citazione del responsabile civile contenga la specifica “indicazione delle domande che si fanno valere” nei suoi confronti (art. 83, comma 3, lett. b). Pertanto, da un verso, si prevede la precisazione della causa petendi al momento della costituzione di parte civile, dall’altro si sancisce l’obbligo per la parte civile di precisare il petitum depositando conclusioni scritte comprendenti, se è richiesto il risarcimento, anche la determinazione del suo ammontare (art. 523 c.p.p., comma 2).

19.2. Dovrà parimenti ritenersi ammessa, in sede di giudizio dinanzi alla Corte d’appello in unico grado, una eventuale, diversa valutazione dell’elemento soggettivo (colpa anzichè dolo) ed una eventuale, diversa qualificazione del titolo di responsabilità ascritta al danneggiante, ove i fatti costitutivi posti a fondamento dell’atto di costituzione di parte civile siano gli stessi che il giudice di appello è chiamato ad esaminare. La tutela del diritto di difesa del danneggiante sarà, in tal caso, garantita dal disposto dell’art. 101 c.p.c., comma 2, poichè, in presenza di una rilevazione officiosa del giudice, gli sarà consentito il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione a seguito della riserva di decisione prevista dalla norma citata, così operandosi un equo bilanciamento tra le contrapposte posizioni di chi non abbia spiegato tutte le necessarie difese in sede penale, e di chi, di converso, si vede sottratto un grado di giudizio per far valere il proprio diritto risarcitorio.

20. In conclusione, pur nella sostanziale consonanza delle regole di enunciazione del “principio di diritto” (nel sistema processuale penale e civile) indirizzate al giudice del rinvio perchè ad esse si uniformi (art. 173 disp. att. c.p.p., comma 2 e art. 384 c.p.c.), esse tuttavia presuppongono che di vero e proprio giudizio di rinvio si tratti, e non risultano applicabili allorquando, come nella specie, l’azione civile si sia ormai affrancata dal giudizio penale in ragione della scissione determinatasi a seguito della valutazione compiuta dal giudice penale che, chiusa la fase penale e “fermi gli effetti penali della sentenza”, rimette ai soli effetti civili la cognizione del giudice civile competente in grado di appello.

20.1. Offre ulteriore conforto alla soluzione predicativa della valenza soltanto lessicale dell’espressione “rinvio al giudice civile”, va ripetuto, la considerazione che non è consentito al giudice penale, nel sistema vigente – ispirato al principio di separazione dei processi e all’indipendenza dei giudicati – di decidere anche sulle domande civili quando prosciolga l’imputato, tenuto conto che gli accertamenti al riguardo sarebbero del tutto impropri, perchè compiuti da un giudice penale che, dovendo prosciogliere, rimane privo di competenza sull’azione civile.

20.2. In particolare, se, nel processo penale, a differenza che in quello civile, la parte civile può legittimamente rendere testimonianza, in mancanza di una norma speculare a quella dell’art. 246 cod. proc. civ., e tale testimonianza può essere sottoposta al cauto e motivato apprezzamento del giudice penale, che può fondare la sentenza di condanna anche soltanto su di essa, l’efficacia probatoria di tale atto processuale deve essere vagliata alla stregua delle regole processuali del codice di rito civile.

20.3. In proposito, questa Corte, in passato, ha ritenuto che la testimonianza resa dalla parte civile nel processo penale conservi il suo valore anche quando, con l’accoglimento del ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, il solo processo civile prosegua dinanzi al giudice di rinvio, fondando tale convincimento sull’erroneo presupposto secondo il quale, in tal caso, continuerebbero ad applicarsi, in parte qua, le regole proprie del processo penale, e la deposizione giurata della parte civile, ormai definitivamente acquisita, andrebbe esaminata dal giudice del rinvio esattamente come avrebbe dovuto esaminarla il giudice penale se le due azioni non si fossero occasionalmente separate (Cass. 14 luglio 2004, n. 13068).

20.4. Dalle argomentazioni che precedono, viceversa, deve ritenersi illegittima l’eventuale ricostruzione del fatto dannoso ovvero qualsiasi eventuale riconoscimento di efficacia probatoria – che faccia riferimento alle dichiarazioni rese in sede penale, in veste di testimone, dalla parte civile. Una diversa interpretazione si porrebbe, difatti, in aperto contrasto con il principio che vincola il giudice del rinvio ex art. 622 c.p.p. al rispetto dei canoni sostanziali e processuali propri del giudizio civile, tra cui quello di cui all’art. 246 c.p.c., ai sensi del quale “non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio”.

20.5. Quanto alle prove dichiarate inutilizzabili nel processo penale, il giudice penale di legittimità, nell’annullare senza rinvio agli effetti penali, con rinvio agli effetti civili ex art. 622 c.p.p. per vizio di motivazione, la sentenza fondata su dichiarazioni di un ufficiale di polizia giudiziaria ritenute inutilizzabili perchè assunte in violazione del divieto posto dall’art. 195 c.p.p., comma 4, ha ritenuto che “la prova inutilizzabile nel processo penale, perchè assunta in violazione di un espresso divieto probatorio, non possa essere utilizzata nel giudizio civile, atteso che diversamente, si realizzerebbe una sostanziale elusione dell’accertamento compiuto in sede penale” (Cass. 8 febbraio 2018, n. 43896, Luvaro).

20.5.1. A tale principio non può darsi alcun seguito.

Con particolare riferimento alla questione dell’inutilizzabilità delle prove, difatti, questa Corte, seppure con riguardo ad un giudizio civile autonomamente instaurato e non proveniente da un annullamento con rinvio ex art. 622 c.p.p. (senza che tale circostanza segni alcuna differenza di regime probatorio, per la ragioni poc’anzi esposte), ha condivisibilmente affermato che, nell’ordinamento processualcivilistico, mancando una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purchè idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo (Cass. 25 marzo 2004, n. 5965). In base al principio del libero convincimento, pertanto, il giudice civile può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente, le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali. In tale contesto, deve ritenersi che il giudice civile possa trarre elementi di convincimento – sempre che li sottoponga ad adeguato vaglio critico – anche dalle dichiarazioni c.d. autoindizianti rese da un soggetto in un procedimento penale, non potendo la sanzione di inutilizzabilità prevista dall’art. 63 c.p.p., posta a tutela dei diritti di difesa in quella sede, spiegare effetti al di fuori del processo penale. L’utilizzabilità, difatti, è categoria del solo rito penale, ignota al processo civile, e le prove precostituite, quali gli stessi documenti provenienti da un giudizio penale, entrano legittimamente nel processo, attraverso la produzione e nella decisione in virtù di un’operazione di logica giuridica, e tali risultanze probatorie appaiono contestabili solo se svolte in contrasto con le regole, rispettivamente, processuali o di giudizio, che vi presiedono (Cass. 4 giugno 2014, n. 12577, con riferimento, in particolare, al valore probatorio delle dichiarazioni indizianti ex art. 63 cod. proc. pen.).

20.6. Va parimenti data continuità all’orientamento di questa Corte secondo il quale, con specifico riferimento ai poteri di valutazione delle risultanze probatorie riservati al giudice di merito, l’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (imposto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo con la sentenza 21 settembre 2010, Marcos Barrios/Italia, in relazione all’art. 6, par. 1 della Convenzione EDU) si impone soltanto in ambito penalistico ogni qualvolta si intenda riformare la sentenza assolutoria di primo grado in ossequio della regola di giudizio “al di la di ogni ragionevole dubbio” e della garanzia costituzionale della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost., comma 2, ma non è applicabile ai giudizi risarcitori civili, governati – in tema di accertamento del nesso causale tra condotta illecita e danno – dalla diversa regola probatoria del “più probabile che non”, e ciò tanto più ove venga richiesta in appello l’affermazione della responsabilità del presunto danneggiante (nella specie, responsabilità da circolazione stradale) negata dal giudice di primo grado (Cass. 30 settembre 2016, n. 19430).

20.7. Dalle argomentazioni che precedono, deve pertanto ritenersi che il giudice civile, in sede di rinvio, nell’apprezzare integralmente l’istruzione probatoria compiuta in sede penale, possa porla a fondamento della propria decisione quale prova atipica – sia se raccolta in contraddittorio tra le stesse parti in virtù del principio dell’unità della giurisdizione (ad esempio, la deposizione di un testimone ovvero le risultanze di una consulenza tecnica assunte in dibattimento) – sia allorquando il dibattimento sia mancato, ponendo in tal caso come condizione la rituale acquisizione in giudizio della relativa documentazione al fine di trarne oggetto di valutazione delle parti (ad esempio, quando l’imputato abbia scelto un rito alternativo ovvero sia rilevante apprezzare il contenuto delle sommarie informazioni assunte nel corso delle indagini preliminari), per poi – in entrambi i casi – sottoporla a vaglio critico, svincolato dalla valutazione fornita dal giudice penale, senza che rilevino le peculiari regole in materia di ammissione e di assunzione delle prove relative al diverso ambito penalistico nel quale sono state assunte – risultando il principio del libero convincimento, così inteso, in piena armonia con le implicazioni sottese al principio di parità che governa nel sistema processuale vigente i rapporti tra il processo penale e quello civile.

21. A non diversa soluzione deve giungersi quanto all’individuazione delle regole probatorie applicabili in tema di nesso causale.

21.1. La questione se, ai fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento del danno, nel giudizio di rinvio debbano continuare ad applicarsi le regole processuali penali che hanno governato il processo fino all’annullamento da parte della Corte di cassazione – con la conseguenza che l’an della responsabilità debba essere accertata secondo il canone dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio (così come avviene nel giudizio penale d’impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento impugnata dalla sola parte civile) – ovvero se, una volta separata la res iudicanda penale da quella civile, a quest’ultima possano applicarsi le regole processuali civili, con la conseguente sufficienza di un minor grado certezza in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito, secondo il canone civilistico del “più probabile che non”, trova appagante soluzione nella stessa premessa posta in ordine alla natura del giudizio di rinvio.

21.2. Alla luce degli stessi criteri di ragionevolezza, di effettività della tutela e di bilanciamento di interessi più volte affermati dal Giudice delle leggi e dalle Corti sovranazionali, non appare conforme a diritto vincolare il giudizio civile alle regole processuali penali, imponendo un trattamento differenziato a seconda che la pretesa civile della persona offesa venga azionata nel processo penale oppure in quello civile, una volta che il primo abbia definitivamente esaurito la sua funzione. Trattamento differenziato che potrebbe, oltretutto, determinare effetti paradossali nel caso in cui due persone danneggiate dallo stesso fatto illecito (danno parentale per uccisione di un congiunto) scelgano l’una di costituirsi parte civile nel giudizio penale e l’altra di esercitare l’azione di risarcimento dei danni in quello civile. In tale caso, all’esito del rinvio al giudice civile ex art. 622 c.p.p., nonostante la rinnovata dimensione (soltanto) civilistica del procedimento, l’una potrebbe vedersi rigettare la domanda risarcitoria, l’altra vederla accolta dal giudice adito in conseguenza della applicazione di una diversa regola causale così ponendosi, a tacer d’altro, un evidente problema di conformità a Costituzione di una siffatta interpretazione.

21.3. Deve pertanto, darsi seguito al più recente orientamento di questa Corte, alla luce del quale (Cass. 12 aprile 2017, n. 9358), riassunto il processo nella sede civile, il giudice di rinvio non è affatto vincolato, nella ricostruzione del fatto, a quanto accertato dal giudice penale: se, tecnicamente, il giudizio di rinvio è regolato dagli artt. 392 – 394 c.p.c., è del tutto evidente che non è per questo in alcun modo ipotizzabile un vincolo come quello che consegue all’enunciazione di un principio di diritto ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, da parte di questa Corte: con conseguente dovere del giudice civile, nella (libera) ricostruzione dei fatti e nella loro (libera) valutazione, di applicare del criterio civilistico del “più probabile che non” nella valutazione del nesso causale, in luogo di quello tipico del processo penale dell’alta probabilità logica, e con conseguente irrilevanza, sul piano processuale, dell’eventuale, contraria indicazione contenuta nella sentenza penale di rinvio ex art. 622 c.p.p..

21.4. I principi dianzi esposti sembrano trovare indiretta e ulteriore conferma nella stessa disposizione dell’art. 187 c.p., cpv., la quale, statuendo per i condannati per uno stesso reato l’obbligo in solido al risarcimento del danno, non esclude, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, ipotesi diverse di responsabilità solidale di soggetti che non siano colpiti da alcuna condanna o siano colpiti da condanna per reati diversi o siano taluni colpiti da condanna e altri no (Cass., 4 giugno 2001, n. 7507; Cass., 15 luglio 2005, n. 15030; Cass., 7 giugno 2006, n. 13272; Cass., S.U., 15 luglio 2009, n. 16503; Cass., 12 marzo 2010, n. 6041; Cass., 24 settembre 2015, n. 18899; Cass., 28 luglio 2017, n. 18753; Cass., 29 maggio 2018, n. 13365; Cass. n. 9067 del 2018, cit.; Cass. n. 1070 del 2019, cit.).

22. Le questioni di diritto poste all’esito del rinvio ex art. 622 c.p.p. (supra, sub 14.1) possono, pertanto, trovare soluzione nei termini che seguono:

a) il diritto al risarcimento del danno è un diritto eterodeterminato, sicchè l’identificazione della domanda è conseguenza esclusiva dell’individuazione del relativo petitum e della relativa causa petendi, così come rappresentata dal danneggiato in sede di costituzione di parte civile;

b) i fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno prescindono dall’identificazione del fatto come reato: è pertanto legittima, in sede di giudizio dinanzi alla Corte d’appello civile, una eventuale, diversa valutazione degli stessi;

c) all’esito della trasmigrazione del procedimento dalla sede penale, è diverso l’ambito entro il quale l’attività difensiva delle parti viene a svolgersi, dovendo le relative questioni essere trattate in base alla prospettazione del fatto sotto il profilo (non del reato, ma) dell’illecito civile ex art. 2043 c.c.: all’esito del rinvio al giudice civile, il fatto perde la sua originaria connessione con il reato per riacquistare i caratteri dell’illecito civile, seguendo i canoni probatori propri di quel processo, essendo ormai venuta meno, con l’esaurimento della fase penale del giudizio, la ragione stessa di attrazione dell’illecito nell’ambito delle regole della responsabilità penale;

d) conseguentemente, il giudice civile in sede di rinvio dovrà applicare, in tema di nesso causale, il canone probatorio del “più probabile che non” e non quello dell’alto grado di probabilità logica e di credenza razionale;

e) rispetto alla fattispecie di reato a condotta vincolata, nel giudizio civile possono essere fatte valere tanto modalità di condotta diverse da quelle tipizzate dalla norma penale, quanto diversi titoli di responsabilità, che viceversa rilevino ai sensi degli artt. 2047 e ss. c.c..

f) deve ritenersi legittima una diversa valutazione dell’elemento soggettivo dell’illecito ove nel processo penale si sia proceduto per un reato doloso per il quale la legge penale non preveda una speculare punibilità a titolo di colpa, mentre la valutazione dell’elemento soggettivo colposo (ove, nel giudizio penale, si sia proceduto a tale titolo) deve a sua volta ritenersi autonoma rispetto alla nozione di colpa penale: pur nella consonante dimensione “oggettivata” della fattispecie e nella sostanziale identità dei relativi aspetti morfologici (come desunti dalla regola generale di cui all’art. 43 c.p.), ne mutano poi quelli funzionali, alla luce del combinato disposto di cui all’art. 1176 c.c., commi 1 e 2 e art. 1218 c.c., con accentuazione dei modelli standard di comportamento;

g) deve ritenersi legittima una eventuale, diversa qualificazione officiosa del titolo di responsabilità ascritta al danneggiante, ove i fatti costitutivi posti a fondamento dell’atto di costituzione di parte civile siano gli stessi che il giudice di appello è chiamato ad esaminare, salvo l’obbligo di indicare alle parti le eventuali questioni rilevate ex officio, con le conseguenze di cui all’art. 101 c.p.c., comma 2;

h) l’esistenza di una causa di giustificazione e/o di non punibilità prevista dalla legge penale e riconosciuta in quel giudizio non ne preclude un’autonoma valutazione in sede civilistica, come confermato dalla recente riforma della responsabilità sanitaria (L. n. 24 del 2017, art. 7), nonchè (addirittura testualmente, sul piano sanzionatorio) dalla ancor più recente riforma della legittima difesa.

Il primo motivo di ricorso (con assorbimento delle rimanenti censure) deve, pertanto essere accolto nei limiti di cui in motivazione.

La sentenza impugnata deve essere conseguentemente cassata, con rinvio alla Corte di Appello di Roma, che, in diversa composizione, si atterrà al principio di diritto che segue:

Nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p. la Corte di appello competente per valore, cui la Cassazione penale abbia rimesso il procedimento ai soli effetti civili, deve applicare le regole, processuali e probatorie, proprie del processo civile, e conseguentemente adottare, in tema di nesso eziologico tra condotta ed evento di danno, il criterio causale del “più probabile che non’, e non quello penalistico dell’alto grado di probabilità logica e di credenza razionale, anche a prescindere dalle contrarie indicazioni eventualmente contenute nella sentenza penale di rinvio.

La Corte d’appello capitolina provvederà altresì alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte:

– accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata nei limiti di cui in motivazione e rinvia il procedimento alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà anche per le spese del giudizio di legittimità;

Così deciso in Roma, il 18 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2019

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